E adesso si potrebbe fare una disquisizione, peraltro oziosa, su cosa si intenda per romanzo storico e se l’ultima eccellente performance narrativa di Fiorella Franchini - giornalista napoletana, critica d’arte di riconosciuto valore ( da anni cura rubriche culturali sul quotidiano Il denaro ed altri giornali cartacei e non), nonché scrittrice a su volta – corrisponda ai canoni più o meno riconosciuti e condivisi che tuttavia fanno parte della stucchevole routine classificatoria del nostro contemporaneo consumabile. Se possa, insomma, essere annoverata in questo genere o esserne repulsa come un’infedele. D’altra parte, visto il dilagare dei generi più o meno canonizzati e serializzati ( capaci spesso di incidere sulla autonueutralizzazione creativa di molti scrittori fino all’annullamento del nobile criterio di libertà di espressione), lo stesso discorso si dovrebbe fare a proposito del romanzo giallo, o noir, othriller, o crime, o spy, che dir si voglia ( sul genere tutti sono d’accordo ma su come definirlo no) che ormai ha raggiunto il limite della tollerabilità del banale e del nulla, anch’essi seriali. E così pure del romanzo sociale ( e quale sarà mai la differenza con lo storico?) d’avventura, o minimalista, o di quello erotico, eccetera. Ed allo stesso modo delle ibridazioni, nel nostro caso: romanzo storico sociale, storico politico, storico antico, contemporaneo, eccetera. La verità è che un romanzo è un romanzo, se è bello è bello se è brutto è brutto, a prescindere dai generi, dalle classificazioni, dalle catalogazioni, e da ogni ammorbamento forforale e catastale. E dunque, ritornando alla Franchini (che ha già pubblicato, sul tema dell’antico Il velo di Iside per Homo scrivens, e Koraillon per Kairos), e al suo ultimo lavoro per i tipi di Guida Editore, Pulsa de nura, la maledizione di Beatrice di Cilicia, si ha l’impressione che questa in ossessione della prassidi archiviazione, sia felicemente dissolta. Perché, se è vero che la prima cosa che rimane impressa, oltre alla maestria nella gestione del plot, è proprio il livello della ricerca storica, evidentemente faticosa e sicuramente efficace - non soltanto relativa alla ambientazione, ma anche alla ricerca filologica - tuttavia tutto questo lungo studio di preparazione ( trasversale in tutte le narrazioni, e ce lo dice, tra i contemporanei, Philip Roth ) si tramuta in Plulsa de nura in una vera e propria “immersione” nei luoghi, e diventa racconto vissuto in tempo reale insieme ai protagonisti ed ai comprimari che affollano il romanzo; perché in questo melodramma antico, anche le comparse hanno una identità definita. Perciò, quello che colpisce, ed è in certo modo straordinario, é proprio lo scivolamento nell’imbuto del tempo che ingurgita, insieme ai protagonisti, le cose, la natura, i mari e le terre, le strade e le costruzioni architettoniche; che afferra e trascina con sé illettore, ponendosi davanti ai suoi occhi come una di quelle diaboliche scatole tridimensionali, capaci di andare in retromarcia e trasformare il tempo passato in tempo reale. E dunque, questo romanzo fa lo stesso effetto di una meravigliosa lente digitale. Ed è questo il carattere precipuo, per altro mediato dal cinema e dagli sceneggiati degli anni ’60 (oggi l’americanismo fiction) del nuovo romanzo storico, o meglio sarebbe dire ad ambientazione storica. E visto che di storia si parla, ecco la storia, che prende le mosse dal saccheggio e dalla distruzione del tempio di Gerusalemme, fatta da Tito Flavio, nel 79 dopo Cristo. Diventato imperatore di Roma, Tito Flavio ebbe l’idea, imprudente a giudicare dagli eventi devastanti che segnarono il suo tempo, di ripudiare la regina Berenice di Cilicia con cui divideva il talamo; e probabilmente la sullodata regina, non andava oltraggiata, perché portava male. Fatto sta che appena prese il potere, Flavio dovette fronteggiare una serie diimmani sciagure a cominciare dall’eruzione del Vesuvio, poi una epidemia di colera, fino al terribile incendio di Campo Martio. Insomma, il povero Tito Flavio se le era proprio andata a cercare, perché secondo le credenze popolari tutti questi eventi terrificanti erano legati alla maledizione ebraica, la pulsa de nura per l’appunto, scatenata dai rabbini per placare la collera della Berenice ripudiata. Questo è lo spunto, ma in fondo si racconta una storia d’amore, si romanzano gli eventi ad esso contemporanei, si costruiscono scene che replicano con una certa fedeltà quelle probabili del tempo, si animano personaggi minori che parlano, si muovono, si comportano come probabilmente avveniva a quel tempo. Ma se qualcuno pretende una pedante e peraltro stucchevole fedeltà storica, è meglio che vada a consultare i testi di ricerca; comunque troverà notizie sicure, questo è certo, ma più che altro saranno indizi, credenze popolari, leggende. Cosa che deve aver fatto edegregiamente, come già detto, proprio la Franchini prima di distaccarsi dalla ricerca a favore della creatività. Perché il suo romanzo, per intenderci, proprio del raccontare ha i topoi migliori. A cominciare dall’intreccio, mai banale, sempre legato alla concretezza verista e realistica che è propria del romanzo popolare, quello sì catalogabile, e peraltro trasversale e identificabile in molti sedicenti generi. Perché uno degli equivoci dei nostri tempi è quello di considerare la storia unica, certa e indeclinabile solo a patto che se ne traggano vantaggi. Ma la storia stessa ha dimostrato di avere molte facce, tutte veridiche e tutte falsificabili, tutte uguali peraltro all’idea preconcetta di chi la racconta. Per cui, più la storia riguarda il passato remoto, più è incerta ed equivocamente relativa. Più riguarda il passato prossimo, più diventa una semplice opinione sui fatti. Ma in un romanzo che racconta una storia di 2000 anni fa, una storia remota e che perragioni obiettive non può corrispondere ad un ben legittimato criterio di assolutezza, specie riguardo ai suoi personaggi di spicco, la storicità è quasi impossibile. L’anno fondamentale per il romanzo storico in Italia fu il 1827 quando Alessandro Manzoni chiuse la prima versione de I promessi sposi (ventisettana, la definitiva, è del 1840). Il romanzo, si sa, propone una tesi storica, religiosa e morale che sollecita il lettore a riflettere su quale sia il significato dell’esistenza e della storia. Manzoni studiò i fatti accaduti nel ‘600 a Milano e luoghi limitrofi, attingendo alla Historia Patria dello storico milanese Giuseppe Ripamonti; ma pure, conosceva i romanzi di Scott e la lettura di Ivanhoe gli era stata di ispirazione già per Adelchi (tragedia ambientata al tempo della discesa in Italia di Carlo Magno). Oggi, però, il romanzo storico ha mutato aspetto. Perché, tra l’altro, è invalsa l’idea che la storia non l’abbiano fatta soltanto quelli che hannoinciso con le loro decisioni sulle sue sorti stesse, ma piuttosto le persone comuni , i quivis de populo, e così pure ne abbiano segnato le traiettorie i sentimenti umani intorno ai quali rimane problematico stabilire certezze. Dunque non più romanzo storico, nella sua accezione comune e cogente, ma piuttosto “romanzo della Storia”. Perché si può fare romanzo della Storia con o senza i documenti di riferimento, con o senza le opinioni di studiosi accreditati, con o senza le testimonianze dirette o tramandate di chi quei tempi li ha vissuti. La storia la fanno i famosi ( da famosus), gli eroi, ma anche e soprattutto i dimenticati. Ed è proprio questo uno dei pregi del romanzo della Franchini: un romanzo popolare che pare raccontato ( o cantato) dagli aedi o dai rapsodi, nelle strade e nelle piazze, alla gente comune, Le circostanze che formulano il tempo del plot, sembrano, infatti, legati al passato da una speciale magia, come se d’invenzione si potesse parlare solo a bocceferme, quando la Storia è stata. Ma chi scrive, e la Franchini lo fa con raffinato e filologico senso dei tempi del racconto, ad ogni passo può creare e fantasticare, dall’ultima battuta detta, all’ultima avventura inventata, alla descrizione di una villa patrizia che fa da sfondo ad una storia di passione. Ed è così che la Franchini prende le distanze dalla Storia con la “s” maiuscola, della sue fedeltà infedeli, dalle sue faticose latitudini, per inventare e creare. Che cosa? Un romanzo, e che altro sennò. Perché è proprio ciò che vuole chi legge. Tutto si gioca sulla competenza dei luoghi e del tempo, delle storie personali e della Storia grande e totale, a volte si tratta di utilizzare le fonti, altre di tradirle con convincimento e gioia, altre di trovare le parole più adatte per raccontarle. E perciò la Franchini in questa fuga dall’Alcatraz del romanzo storico, schiva con eleganza un macigno, e oltre a scrivere un romanzo licenziabile semplificando come storico, loemancipa da stilemi convenzionali e invece di piegarsi alla storia tout court, né fa una simile e meravigliosa. Perché una cosa è narrare di fatti relativamente vicini a noi, un’altra è ambientarli 2000 anni addietro. Qui l’operazione riesce egregiamente. E così, questo raffinatissimo romanzo compie un miracolo nemmeno immaginabile, rinnovando l’idea stessa di narrazione che prende spunto da fatti storici ed elevandola a letteratura colta e circostanziata che non sono proprietà di genere ma cardini del romanzo in assoluto. E se lo sfondo propone la ricostruzione storica per altro fedele, il sentimento dell’amore tra i protagonisti, per esempio, molto ben sceneggiato e efficacissimo, attraversa il tempo per arrivare fino a noi con la stessa intensità di un amore contemporaneo, con la stessa fluida semplicità dei dialoghi, delle frasi che mille volte gli amanti si sono ripetuti e si ripeteranno finche ci sarà il tempo. Lo stesso scenario politico che costituisce la struttura portantedel plot è costruito sulle ambizioni, sulle bassezze, sui tradimenti e sulle trame immorali che uniscono e mettono contro gli uomini da sempre. E la ricostruzione dei luoghi, fedelissima e minuziosa, ci porta dentro il racconto come una magica scenografia. Campania felix , ville patrizie, Campi Flegrei dei quali la Franchini molto ha scritto e molto conosce. Opera compiuta, matura, controcorrente, inimmaginabile in una scrittrice che fa di un certo candore e di una riservatezza rigorosa la propria cifra umana. Perciò, neppure mi va di fare paragoni fuori tempo usando (e abusando) come “unità di misura” proprio I Promessi sposi. Romanzo storico per definizione, cronistico anche nella vicenda di Renzo e Lucia. Ma a quali reperti storici corrispondono i dialoghi tra i due protagonisti? Ed a quali le parole della monaca di Monza, o dell’Innominato. E siamo sicuri che le minacce fatte a Don Abbondio dai bravi siano quelle reali? Già Riccardo Bacchelli agli inizi del Novecento,nel culmine del Futurismo, invocava il superamento dei modelli ottocenteschi e l’abolizione della narrazione in senso tradizionale. Un esempio ci è familiare: Matilde Serao con Il ventre di Napoli (1884) come pure Federico De Roberto con I Vicerédi , pubblicato nel 1894; E i tempi del cambiamento maturano nel dopoguerra. Primo Levi, con Se questo è un uomo (1945), e Curzio Malaparte (1950) ricordato per La pelle ma già autore di Italia barbara e Kaputt. E poi i romanzi e racconti storici di Maria Bellonci, dal ’47 fino agli anni ottanta ( ricordiamo i titoli Segreti dei Gonzaga, Tu vipera gentile, Rinascimento privato). E Anna Banti, che nel ’47 pubblicò Artemisia, sulla vita della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, Nel 1958, esce postumo, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, V’è per inciso da dire che lo stesso neorealismo cinematografico si avvale di straordinarie sceneggiature segno altissimo e ineguagliato di questo tipo di scrittura, effettodelle esperienze appena vissute della guerra e della Resistenza. Ne parla Italo Calvino nella prefazione al suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Tra gli anni cinquanta e sessanta, Vasco Pratolini con la trilogia Una storia italiana (Metello, Lo scialo e Allegoria e derisione), e Noi credevamo, ancora la Bellonci (1967), ambientato in epoca borbonica. E nell’ultimo quarto del Novecento il romanzo compie il salto definitivo in direzione di una maggiore libertà di schemi. Luigi Malerba, nel 1974 diede alle stampe Le rose imperiali, ambientato nella Cina del IV secolo, Storie dell’anno Mille (1777, scritto con Tonino Guerra), Il pataffio (1978), Il fuoco greco (1991), Le Maschere (1995), Itaca per sempre (1997). In questi romanzi, infatti, i riferimenti ai fatti storici sono solo essenziali, e il passato è il pretesto per raccontare le ombre del presente politico oscuro e corrotto. E La Storia di Elsa Morante, pubblicato nel 1974, fu un evento di primo piano sulpiano letterario e anche editoriale: l’autrice impose all’editore un prezzo di copertina molto basso e popolare. L’anno successivo, il 1975, lo scrittore e saggista Mario Pomilio diede alle stampe la sua opera più nota, Il quinto evangelio. Ma soprattutto è significativa la produzione di Leonoardo Sciascia che andrebbe totalmente ristudiata per trarne un protocollo di narrativa storica impegnata ed un esempio di impegno civile e sociale. E ancora il napoletano Enzo Striano con Il resto di niente di, uscito nel 1986, nel quale viene raccontata la vita di Eleonora de Fonseca Pimentel sullo sfondo della rivoluzione napoletana del 1799. E Rosetta Loy, Le strade di polvere, storia di una famiglia monferrina dalla fine dell’età napoleonica ai primi anni dell’Unità. Nel 1988 uscì Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino, e nel 1990 La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, sul riscatto di una gentildonna sordomuta dal trauma di una violenza subita da bambina, nellaPalermo del Settecento. Del 1979 è L’ordalia di Italo Alighiero Chiusano, ambientato invece nel Medioevo, un’opera che sembra una sorta di preludio a Il nome della rosa di Umberto Eco, potente affresco medievale, celebre in tutto il mondo . Con Il nome della rosa, la rinascita del genere è compiuta; si parla infatti di "romanzo neostorico". E infine, il grande, immenso Antonio Tabucchi, in Sostiene Pereira uno dei testi fondamentali della narrativa contemporanea, ambientato a Lisbona nel 1938, durante il regime salazarista, da alcuni considerato il protocollo moderno del romanzo storico ( ma molto, molto altro) . Per giungere alla contemporaneità basta citare Elena Ferrante e le saghe storico- sociali ambientate in un quartiere della Napoli postbellica Tutti questi autori ( le citazioni sono necessariamente rapide e lacunose), è da supporre, siano stati, con il beneficio dell’inventario (anche per chi scrive queste note), un riferimento sicuro per FiorellaFranchini. E volutamente ometto, perché non particolarmente attraenti proprio i romanzi che sono ambientati nello stesso periodo delle vicende raccontate in Pulsa de Nura. Tra l’altro i più degni di nota, scritti negli anni ’50 e trasposti più volte in sceneggiature cinematografiche sono: Spartcus di Howard Fast, Exodus di Leon Uris, Ben Hur di Lew Wallace, tutti, tra l’altro rigorosamente stranieri. Ma alla fine conta e fa la differenza la formazione di uno scrittore, la sua abitudine alla ricerca della parola esatta ( Joyce insegna) e in questo caso filologicamente giusta; perché una cosa e la storia sceneggiata e romanzata, un’altra e la conoscenza tecnica e creativa della scrittura, la gestione della trama “ordita” per irretire il lettore e tenerlo appassionatamente abbracciato alle pagine; altra sono i farfugli narrativi di gran parte dei “banalisti” contemporanei. La Franchini, come tanti autori napoletani non adeguatamente valorizzati (per ora) da media inani edistratti, ha fatto la sua scelta di qualità e di impegno, di amore per la scrittura. Pulsa de Nura non è un “romanzo per caso” non è scritto da un’allegra neofita dilettante. E’ un lavoro che ha una identità precisa ed è perciò, visti i tempi, in qualche modo, destabilizzante. E la differenza la fa proprio la abitudine a narrare che è dello scrittore/ttrice di razza. Ma di Fiorella Franchini queste cose si sanno, e da tempo. E allora nessuna “maledizione”, ma solo la bellezza che è l’anima di ogni libro riuscito, di ogni libro che se ne frega dei generi, perché è un libro. Bruno Pezzella
Fiorella Franchini Pulsa de Nura, Guida editori,pp.346, euro14,00
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