Alla cinquantatreesima Biennale d’arte di Venezia, il Padiglione spagnolo presenta le opere dell’artista di Majorca, tra ceramiche e grandi dipinti su tela. Il tentativo, non sempre apprezzato dai critici, di tornare ai «primordi» della pittura Da molti anni, oramai, Miquel Barceló ha scelto il Mali, come sua «dimora d’artista». Una scelta non indifferente, non fosse altro per l’insolita e del tutto sui generis collocazione fuori dai circuiti convenzionali del sistema «metropolitano» dell’arte. Il suo primo viaggio in Mali, l’artista nato a Majorca cinquantadue anni fa lo fece assieme a Pilar Tomás e Jordi Brió nel 1988. Dopo avere attraversato il deserto del Sahara, infatti, Barceló si stabilì sulle sponde del Niger, a Gao, nella regione della Repubblica del Mali, ponendosi a stretto contatto con una cultura, quella dogon, capace di «ingegnarsi in condizioni ostili». Dall’incontro con la terra rossa delMali, Barceló ha tratto la sua passione per i pigmenti minerali, la sabbia e per le termiti, spesso presenti nei suoi lavori. Lo incontriamo a Venezia, nel corso della Biennale d’Arte, dove è ospite del Padiglione Spagnolo. Lei parla spesso di una pittura fatta «di materia e di luce», anche le opere esposte a Venezia testimoniano di questa sua tensione. Tutta la pittura è centrata su questo rapporto tra luce e materia. Direi: tra la luce, la materia e le cose. Sottolineo «la» pittura, perché è un fatto che non riguarda o non dovrebbe riguardare solo la «mia» pittura. Per quanto mi concerne, però, entrando dunque nello specifico della questione, direi che il rapporto luce-cose-materia non attiene al solo aspetto «visivo», ma si svolge su un piano e in una dimensione prettamente fisica. Nel campo circoscritto da questo rapporto triadico, si danno alcuni elementi, elementi importanti per me; questi elementi sono la luce e la materia, appunto, ma impastati, impregnati di tempo.Talmente impregnati da venirne infine trasfigurati. Come intende, sempre nello specifico, questo rapporto tra pittura e tempo? Il tempo lo concepisco preliminarmente come dato pittorico, dotato quindi di una sua consistenza materiale o materica (secondo un’espressione che piace molto ai «critici»). Questa consistenza la potremmo definire anche nei termini di «memoria». Una memoria delle cose, delle pietre, della sabbia, delle schiume, degli oggetti, dei pigmenti... La struttura della sua esposizione è concepita tenendo presente questa dimensione temporale... La struttura è pensata quasi come un mandala. È un cerchio sulla sabbia. Si passa, si gira, qualcuno guarda, ma comunque tutti lasciano tracce. Tracce che altri calpesteranno e, forse, cancelleranno pure. Ma in questo andirivieni di impronte e sabbia, come in un mandala appunto, qualcosa rimane. E rimane proprio perché inscritta in un più complessivo perdersi e ricomporsi infinito del tempo. Nella struttura circolaremanca ovviamente una gerarchia, non c’è un «abbecedario» da rispettare, ma tutto procede in cerchio. Le opere esposte mostrano dei gorilla in gabbia, schiuma del mare, sabbia... Sono due o tre le immagini che, in qualche modo, «tentano» di diventare centrali nel mio lavoro. Uso il verbo «tentare», perché vorrei si capisse che si tratta di un lavorio continuo, dentro e fuori di me, che si trasferisce sulla materia e le cose... Queste immagini per me fondamentali emergono e si ripresentano, come nel caso del mare. In altri casi, l’immagine è una figura - spesso umana - all’interno di uno spazio-situazione che può essere quello dell’atelier. Nelle opere esposte in Biennale, l’immagine che propongo è quella di uno scimmione, un gorilla, Copito de Nieve. Un gorilla albino, per la precisione, catturato da scienziati spagnoli in Guinea Equatoriale e rinchiuso nello zoo di Barcellona fino alla sua morte. Potrei dire che, in questo caso, l’uomo è una scimmia e l’atelier è un cosmomulticolore. Ma Copito de Nieve è in una gabbia... La materia è mancanza. Forse, però, questa materia è anche una gabbia... Materia e manque, assenza di materia à la Bataille. Nei dipinti esposti alla Biennale la quantità di materia è molto diversa da quella di tutti gli altri lavori. C’è molta materia che richiama il mare, la schiuma, la sabbia, materia liquida e in certi frangenti anche trasparente. C’è un contrasto, che nei dipinti su carta-giornale diventa assenza. La materia che cos’è, in quest’ultimo caso? Carbone. Carbone, ossia pigmenti minerali, e ceramica. Sono le tecniche più antiche, che risalgono alla notte dei tempi. Pigmenti: Altamira, Lascaux. Poi ceramica, che ho lavorato vicino a Paestum, con i materiali che usavano gli antichi greci: manganese, argilla. I critici le rimproverano proprio per questo un certo arcaismo... Mi piace pensare che, al pari della poesia, la pittura si serva di materiali antichissimi, validi in sé. Trovo incredibile e affascinanteil fatto che con questi materiali si possa ancora produrre qualcosa di trascendente. Non sono affascinato dalle nuove tecnologie. Forse è un limite, alcuni lo concepiscono esattamente così. Per me è solo un dato di fatto. Un dato di fatto che mi permette di vivere. de Il Manifesto
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