Fu il professor Jacques Rimée a convincere Louis Metrìc delle sue insospettabili capacità di esprimersi come un poeta, in un tranquillo pomeriggio primaverile, di quelli così armoniosi e sereni, da non lasciar presagire la esistenza dell’imprevedibile. Era da tempo che Louis aveva notato l’austero profilo del professore costantemente immerso nella lettura di una pila di giornali in un bistrò a St. Germain. Lo vedeva rigorosamente seduto ad un tavolo dell’ultima fila, severamente in disparte, in un angolo da dove si inquadrava, attraverso la vetrata, un ampio tratto di Rue Monge. I due non si conoscevano, ma l’abitudine di frequentare lo stesso locale per lunghi mesi aveva poco per volta creato una strana intesa. Mai scambiata una frase, mai una sola parola. Ma quando il professor Rimée vedeva entrare Louis si rassicurava alquanto, come se si fosse compiuto un rito; e se Louis non vedeva Rimée seduto al proprio posto provava uno stranonervosismo, come se la situazione non fosse più sotto controllo, come se ad un intero affresco mancassero i volti delle persone. Questa abitudine andò avanti per mesi, fu quasi inevitabile stabilire un rapporto che per lungo tempo restò sospeso in un complice silenzio. Tra i due si insediò un sodalizio che si esprimeva in gesti, colpi d’occhio, cenni impercettibili a chiunque altro, ma tutti portatori di un qualche significato che i due avevano imparato a codificare e decodificare a modo loro. Se entrava un maleducato, il primo dei due che lo avesse notato non mancava di accentuare nella espressione del proprio volto un segno di disgusto, che l’altro nel breve volgere di qualche frazione di tempo ricambiava a suo modo, voltando nervosamente la pagina del giornale, o alzando gli occhi al cielo. E se vedevano prender posto persone che per qualsiasi motivo turbassero la quiete atmosfera che aveva saturato l’intero locale, la corrispondenza di segni si faceva così fitta, che chiunqueavesse attraversato la diagonale che separava i due assidui avventori ne sarebbe rimasto indubbiamente trafitto. Con queste premesse, e con una così salda presa di possesso del più recondito degli spazi, non poteva non capitare che un giorno si creassero le condizioni per un incidente. La presenza dei due, strategicamente disposti come cecchini in agguato, emetteva un fluido che finiva per condizionare tutti, imprimeva un ritmo ai movimenti, trasferiva un impalpabile senso di autocontrollo in chiunque si avventurasse a cercare uno spazio. Quel giorno il tavolo al centro del locale fu occupato da un uomo alquanto vivace, che Metrìc catalogò immediatamente come uno squinternato, ad un passo dove sedeva una donna molto attraente, che il professor Rimée si affrettò a definire sostanzialmente volgare. Tutto iniziò quando lo squinternato trovò il modo di avvicinare la donna, irrompendo in un fragore di sedie e di tavoli spostati. In pochi secondi i due trovarono un’istintiva intesa einiziarono a parlare fitto fitto. L’uomo gesticolava, oscillava sulla sedia in bilico su due gambe, invadeva gli spazi dei vicini, partecipava con energia ginnica ad un discorso che la donna non mancava di apprezzare fragorosamente. Anzi, si dimenava alquanto anche lei, con fare sgraziato, seduta sul ciglio della sedia che gemeva e scricchiolava ad ogni sobbalzo. Poi fu un susseguirsi di prorompenti risate a briglia sciolta, con uno straripamento di schiamazzi e grida che lo squinternato cercava d’intonare allo scoppiettante ridacchiare della donna. Entrambi si agitavano vistosamente sulle sedie sempre più gementi sotto gli assidui esercizi ginnici degli esuberanti ospiti. Il professor Rimée e Metrìc si erano scambiati sin dalle prime battute un intero repertorio di sguardi di disapprovazione, indirizzando occhiate che fendevano l’aria come lame, esprimendo una stizza crescente con gesti via via sempre più marcati. Tutti ebbero modo di cogliere la tensione nei loro occhi, tranne i dueginnasti, che proseguivano nell’esercizio della loro invadente rumorosità, nella più assoluta inconsapevolezza che la loro esibizione stava turbando quella mezz’ora di armonia che il professor Rimée e il signor Louis avevano agognato durante l’intera giornata di lavoro. In un furioso crescendo, le parti lese iniziarono a manifestare sempre più apertamente e platealmente il loro dissenso. Ma nemmeno lo sbatter dei tacchi, il frenetico tamburellare delle dita, l’agitare il giornale sul tavolo e i colpi di tosse, via via sempre più espliciti, potevano scalfire la fragorosa conversazione dello squinternato con la donna. Lo scontro avvenne inevitabile quando l’anziano cameriere venne colto da un improvviso malore nell’attraversare la sala, sentendosi investito dallo sguardo simultaneo e convergente del professor Rimée e del signor Louis. Parve quasi che vi rimbalzasse contro. Nel timore di rimanerne infilzato, quasi si trattasse di due picche acuminate, fece un salto all’indietro,rischiando di sprofondare sulle morbide ginocchia di madame Panzè, regalmente seduta sulla poltrona riservata ai fianchi fuor di misura. Il mento dei due censori, ben sollevato e rigido, esprimeva in pieno accordo un unico ed irrinunciabile comando: all’attacco! E il vecchio cameriere, reduce di ben altre battaglie, non esitò ad obbedire. Assunta un’aria marziale, si mosse verso la strana coppia che turbava l’armonia della mezz’ora consacrata alla lettura dei giornali. Il professor Rimée e il signor Louis, rigidi ed impettiti, non esitarono ad assumere l’aria di due ufficiali dello stato maggiore dell’esercito napoleonico che osservavano lo svolgersi della battaglia dall’alto di una collina, seduti a cavalcioni delle proprie sedie come fossero dei cavalli, pronti a sguainare la spada e a lanciarsi essi stessi nella carica contro il nemico. L’intervento della fanteria sembrava svolgersi con un certo ordine: l’attacco frontale del vecchio cameriere era seguito dal garzone che manovravaa debita distanza. La sorpresa ebbe l’effetto di scompigliare lo schieramento dei due giovani, che si ritirarono fin sotto le spalliere delle loro sedie, mantenendo tuttavia intatta l’intera linea del fronte, arretrato di almeno un metro. Lo stato maggiore espresse un sospiro di sollievo, misto ad un profondo compiacimento. Anche se non arrivavano i suoni delle schermaglie verbali, le parole del vecchio cameriere sembravano aver ottenuto un sicuro effetto, perché i due se ne stavano silenziosi ed immobili ad ascoltare. Ma nel pieno dello svolgimento della battaglia, accadde l’imprevedibile. Qualcuno dal tavolo accanto chiamò il cameriere, che si allontanò con la certezza di aver ormai ottenuto il più completo successo con un attacco rapido ed esemplare. La sua imperizia militare rivelò tutta la inefficacia dell’azione quando i due giovani, approfittando della improvvida manovra del cameriere, riguadagnarono le posizioni perdute, sporgendosi in avanti e riconquistando qualche palmo,addirittura una intera enclave oltre l’immaginaria linea del fronte, nella quale il braccio dello squinternato aveva costituito una testa di ponte, impossessandosi della spalliera della sedia di un altro avventore. Quando il cameriere tornò sulla linea di fuoco, la situazione sul campo si era capovolta. Adesso il nemico aveva preso fiducia nei propri mezzi e fronteggiava egregiamente la situazione; il garzone manovrava a distanza di qualche passo, senza dar segno di poter intervenire, e l’esito della tenzone sembrava farsi più incerto. Per sollevare il morale delle truppe, Rimée e Louis con gesti eloquenti invitarono cameriere e garzone a lanciare un nuovo attacco, che però avvenne nella più grande indifferenza del nemico, che lo rintuzzava facendosi scherno dell’inefficacia della azione precedente, e conquistava ulteriore spazio. Adesso le lunghissime gambe dello squinternato avevano invaso il tavolo sulla destra e gli acuminati tacchi a spillo della donna minacciavano chissà qualeazione alla baionetta. Tutto sembrava volgere al peggio, quando Rimeè e Metrìc si lanciarono all’attacco d’istinto, sollevando i giornali come fossero sciabole e piombando con gran sorpresa davanti agli occhi del nemico. Lo squinternato e la donna si strinsero fianco a fianco e così i due schieramenti si trovarono perfettamente disposti in linea di battaglia. La tensione era altissima e la schermaglia riprese furibonda. Intervenne per primo il cameriere: -Signori, dico, ma vi pare questo il modo di infastidire i nostri ospiti? -Cosa? Ma lei è matto, noi stavamo amabilmente conversando – disse lo squinternato non senza mostrare sorpresa e indignazione. -Lor signori davano fastidio. -Fastidio? E a chi? -Agli ospiti, signore, non è certo questo il modo di comportarsi in un pubblico locale. La donna s’insinuò tra i due e con aria di sufficienza pronunciò qualche parola spiacevole al cameriere, che impallidì alquanto, rimanendo però nei ranghi senza indietreggiare,temendo la reazione dell’intero stato maggiore che ansimava al suo fianco. - Noi adesso ci sediamo e voi tornate ai vostri posti – disse con un tono di comando lo squinternato, puntando l’indice verso il nemico. Il cameriere accusò il colpo tacendo miseramente, e fu allora che intervenne il professor Rimée, e fu allora che il signor Louis poté per la prima volta ascoltarne distintamente la voce. “Basta! Basta e ancora una volta, Basta! E non c’è altra parola che io possa dirvi senza dover saccheggiare i bassifondi dei vocabolari di tutta la Francia! Il vostro comportamento è inqualificabile ed indegno, ed offende il decoro di questo locale.” I due giovani rimasero per qualche istante in silenzio, visibilmente seccati, ma anche senza più cartucce da sparare contro un così ampio schieramento. All’improvviso la donna si alzò di scatto, prese per mano lo squinternato ed uscì di corsa dal locale, lasciando dietro di sé la scia sonora di una scoppiettante ed insolente risata. Lostato maggiore ne restò particolarmente irritato, perché avrebbe voluto umiliare pubblicamente il nemico sconfitto, dettandone severissime condizioni per l’armistizio. Ma alla fine dovette accontentarsi della inequivocabile rotta, platealmente avvenuta sotto gli occhi di tutti, e, date le premesse, non era cosa da poco. Mentre il professor Rimée e il signor Louis si accomodavano allo stesso tavolo, il cameriere veniva colto da un sobbalzo non appena si rese conto che il nemico era fuggito con il bottino di guerra di un conto non pagato. Non c’era più modo di scatenare l’inseguimento, malgrado le tre energiche spallate inferte al garzone perché si mettesse in movimento, ormai l’attimo era irrimediabilmente perso. Così, con gran rabbia, il cameriere tornò al proprio lavoro, nel brusìo dei commenti degli avventori che avevano assistito ad un gustoso numero fuori programma. “Mi dica, signor…” “Louis, Louis Metrìc; molto lieto” “Ah, sì certo, sono Jacques Rimée , il piacere è tuttomio. E’ da molto tempo che lei frequenta questo locale. Mi dica, abita da queste parti?“ “Beh, abito lontano per i pigri, vicino per i camminatori. Ho casa a circa 500 metri, in fondo al viale alberato. E lei?” “Oh, io abito dietro l’angolo; in un certo senso questo locale è una appendice del mio salotto” “Molto comodo avere un bistrò per salotto”. “Si, davvero, e c’è il vantaggio di non doversi preoccupare di tenerlo in ordine” I due non erano dei gran conversatori, cosicché, terminati i convenevoli, e dopo ch’ebbero commentato e stigmatizzato l’episodio dei due giovani, si trovarono a corto di argomenti. Dopo un lungo ed imbarazzante silenzio, trascorso nello scavare freneticamente nelle profondità del proprio repertorio, fu il signor Louis a riprendere la parola. “E’ che nel mondo dei giovani, mi creda, non c’è poesia. Non ha notato quello squinternato come si contorceva? E la donna non faceva che annegare la sua indiscutibile bellezza in un atteggiamento cosìstrafottente da renderla persino orribile. Dov’è quella tensione di spirito che lega un uomo ed una donna, dov’è … la poesia?” “Ma che cosa degna e profonda che ha detto, signor Louis ! Ma sì, in fondo l’avevo immaginato; sa, dal mio posto io vedo ed osservo tutto e da qualche tempo avevo notato il suo sguardo così perdutamente proteso nelle profondità di chissà quali pensieri. Insomma, lei dev’essere un poeta! Ma chi l’avrebbe mai detto”. Queste parole provocarono in Louis un improvviso sconvolgimento interiore, come se fosse stato attraversato da una rivelazione profetica. Vi sono persone che quando indossano un abito sono capaci di cambiare lo stato d’animo, la personalità, gli umori. Un uomo in divisa, una donna in un vestito che ne esalti le forme, un completo sportivo possono contribuire ad esaltare una parte della propria personalità. Quando però Louis Metrìc indossò l’abito di poeta, incautamente cucitogli addosso dal professor Rimée, avvenne una vera e propriatrasfigurazione. Il suo animo venne attraversato da un’onda emotiva, il suo volto s’illuminò, qualcuno poteva giurare di averlo visto sollevarsi da terra di un paio di palmi. Le parole del professor Rimée gli fecero ripercorrere in pochi secondi a ritroso i molti decenni della sua esistenza per ricordargli che gli ultimi versi che aveva tentato di scrivere risalivano all’età di poco più di dieci anni, quando il professore di francese impose agli allievi di scrivere un piccolo componimento in rima. E restarono gli unici. Da allora aveva sempre avuto una grandissima considerazione per i poeti, avendo avuto modo di sperimentare il titanico sforzo necessario per mettere le parole in rima. Non che fosse un grande esperto di materie letterarie, ma era convinto che i versi abbisognassero di rima, perchè per lui versi e rima coincidevano con la poesia, che considerava essere uno dei più elevati cimenti per la mente umana. E adesso, nientemeno un esimio professor Rimée non dubitava minimamentech’egli fosse un poeta. Oh, che cosa meravigliosa, doveva essere penetrato nelle più elevate sfere della considerazione di quello che indubbiamente pareva essere un rispettabile uomo di scienze, o un letterato. Louis precipitò in uno stato di pura ebbrezza, e non pensò minimamente di sminuire il complimento ricevuto, che gli parve essere il più naturale riconoscimento del suo genio rimasto così a lungo incompreso. Egli non poteva porsi nemmeno per ipotesi il dubbio che nella considerazione del professor Rimée, in realtà, i poeti avessero una reputazione non dissimile da quella di uno sfaccendato. Così, mentre Louis sollevava fiero il suo sguardo verso l’empireo delle beatitudini, il professor Rimée tentava d’inabissarsi nel suo rifugio, il tavolo dove aveva lasciato ancora aperto il giornale ben dispiegato attorno ad un titolo di economia. Ma l’esser considerato un poeta sciolse l’eloquio di Louis, che proruppe come un fiume in piena a raccontare dei suoi autori preferiti, dellaimportanza della poesia nella civiltà moderna, arrivando persino a declamare qualche verso di Mallarmé, raccattato chissà da qualche ripostiglio della sua memoria, la cui musicalità venne sfregiata come se avesse sfiorato un violino con un ombrello di canapa. Una volta, nel treno per Lione, aveva sentito dire che la lirica moderna del primo novecento assegnava alla musicalità dei versi una forza espressiva superiore al significato delle parole stesse. Quel ricordo provocò nella mente di Louis già in pieno abbaglio una ulteriore illuminazione: decise di impossessarsi immediatamente di quel tratto, provando per la prima volta la consapevolezza di non dover più scalare le immani difficoltà nel trovar rime, cosicché adesso anch’egli, ch’era stato appena incoronato poeta dal professor Rimée, avrebbe potuto declamare i propri pensieri in versi. “Ma lo sa, caro professore, che in tanti anni nessuno si era mai accorto, con la sua immediatezza, s’intende, e con un così acuto senso diosservazione, della mia vera natura di poeta?” “Non ne dubito, mi creda, non ne ho nessun dubbio” rispose freddamente Rimée “Ripensando a quella donna e al suo compagno dinoccolato…” “Perché vuol ricordarmeli? Avevo già provveduto a cancellarli dalla mente” “No, mi riferivo ai due di prima…” “Si certo, ai due esuberanti giovani” “Ne conosceva il nome?” “Il nome?” “Si, avevo avuto l’impressione che li conoscesse” “Ma no, lasci stare, guardi, è già tardi e ….” “No, non mi riferivo a lui, ma alla donna, era molto attraente…” Era evidente che i margini per proseguire un dialogo si erano fatti esigui, ma era altrettanto evidente, purtroppo soltanto al professor Rimée, che nei prossimi giorni avrebbe dovuto sopportare al suo tavolo l’assidua presenza di Louis Metrìc, che gli avrebbe chiesto ogni forma di giudizio sui suoi versi che immancabilmente adesso avrebbe cominciato a scrivere, il che avvenne con inesorabile puntualità. Ormai Louis attraversavaun’estasi mistica, perché non vi era persona, o cosa, o circostanza che non dovessero passare attraverso il setaccio di una elaborazione mentale priva di ogni scrupolo nello svestire la realtà della sua essenza, per sospenderla nell’aura indefinita della sua fonte di ispirazione poetica. Ormai, dopo tanta investitura, aveva finalmente assaporato la certezza di aver compreso l’intima essenza della poesia. Sentendosi ormai libero dalla necessità di dover comporre rime, essendone assolutamente incapace, Louis ritenne d’essere un vero poeta. Fino a pochi istanti prima, egli aveva ritenuto inscindibile il binomio poesia-rima. Adesso gli si erano schiusi nuovi orizzonti, era avvenuta una scissione nucleare e l’energia liberata contribuiva ad alimentare un flusso verbale inesauribile. Il professor Rimée, al quale Louìs esternava tutta la sua esuberante riconoscenza, gli aveva spalancato le chiuse di una diga, liberando fiumi di parole imprigionate per decenni oltre la barriera d’un lungosilenzio. Adesso poteva finalmente contare sulla possibilità di esprimersi non solo senza alcuna costrizione della forma, ma anche del significato, perché, grazie alla illuminazione del professor Rimée, aveva compreso che l’arte non è espressività e comunicazione, ma pura espressione. Questa intuizione lo faceva sentire davvero onnipotente. Adesso non doveva curare più la forma del linguaggio, non doveva cercare le assonanze, le rime, inseguire il significato delle parole. Non doveva più curarsi nemmeno di comporre frasi che dichiarassero un significato. Questa per lui era la vera poesia, l’astrazione totale da ogni forma. La sua prorompente esaltazione, mai provata prima, era quella che avrebbe potuto provare un bambino che per un intero ciclo scolastico fosse stato costretto a passare quotidianamente davanti la vetrina di un negozio di cioccolato senza averne mai potuto cogliere un assaggio. E’ che fino quel momento le porte di quel mondo meraviglioso gli erano state tenutesbarrate. Il povero Louis, nel profondo del suo inconscio, aveva sempre provato un senso di frustrazione che lo rendeva goffamente impacciato nei confronti del prossimo. Adesso che il professor Rimée aveva spalancato davanti i suoi occhi le porte di quel mondo così segretamente agognato, non poteva esimersi dal mostrargli una devota e appiccicosa riconoscenza. “Ecco, caro professore, nella poesia è giunto il momento di ribaltare il mito dell’artista maudit, della vita bohèmienne, così come nel secolo precedente, demolito il baluardo del classicismo, ci si oppose con tutte le sue forze al mondo borghese accademico”. Ciò che nello scorso secolo sembrava eversivo, gli appariva adesso un modo diverso d’essere conservatore, sotto l’irrefrenabile impulso di voler aborrire ogni forma preesistente alla ricerca ossessiva di nuove forme espressive. “Bisogna andare oltre, cercando liberi versi in assenza di forme, ecco la vera essenza della poesia”. Nel frattempo, mentre gli occhi di Louisvagavano alla ricerca d’una qualche ispirazione, il professore Rimée, temendo ulteriori eruzioni verbali, per sfuggire al nuovo magma che ribolliva nell’animo del suo vicino, aveva abbandonato il solito tavolo, scivolando silenziosamente un po’ più in avanti, ma non abbastanza da rendersi irraggiungibile da Louis, che con un’andatura che sembrava quella d’un uomo avvolto nel fumo d’una droga prese prontamente posto al fianco del suo incauto mentore, tenacemente impegnato ad improvvisar versi sedimentati in decenni di silenzio artistico. Trascorsero diversi giorni di assedio, e diverse notti insonni, finché il professor Rimée non finì preda degli incubi. Una notte il rumore del gocciolare del rubinetto della cucina prese a far da tappeto musicale alla declamazione d’un orripilante seguito della Franciarde, il poema improvvidamente lasciato incompiuto da Pierre de Ronsarde, ma ancora più incautamente lasciato incustodito nelle biblioteche di Parigi al punto da essere facile preda dellebrame di Metrìc, che ne scrisse un seguito in una sua originale forma di epica moderna. Ciò rese vani i disperati tentativi di Rimée di prenderne a prestito copie su copie. Ma poi un brivido percorse la schiena quando Louìs gli comunicò che avrebbe desiderato scrivere il seguito delle opere lasciate incompiute dai grandi autori del passato. Corse istintivamente ad ammonire gli sbigottiti impiegati delle biblioteche a non lasciare incustodite e a non diffondere le opere incompiute. Ma era una lotta impari. Provò una gran stizza nei confronti dei grandi scrittori che avevano avuto l’ardire di lasciare intere opere incompiute, non immaginando il pericolo che potessero finire preda di quel Louis Metrìc che vagava come un falco per impossessarsene e scrivere roboanti finali. La sua ronda era assidua e costante, ma le copie delle Franciarde spuntavano come funghi persino nelle edicole dei giornali, sulle bancarelle, nelle scuole. Come una furia Rimée si svegliò e corse subito a riparare ilrubinetto gocciolante. Con la stessa chiave inglese avrebbe sicuramente fatto a pezzi de Ronsard, se mai l’avesse incontrato in quel momento, reo di non aver portato a termine il poema dove adesso Metrìc affondava le sue radici artistiche. Si riaddormentò con affanno e sognò di essere de Launay in persona, l’odiato governatore della Bastiglia, mentre l’intero popolo di Francia, tutti con le sembianze ed il volto di Louis Metrìc, muoveva l’assedio in nome della Rivoluzione della Poesia. Si immaginò di essere al centro della scena dell’arresto raffigurata nel grande quadro di Thévenin e attraversò una rapida successione di avvenimenti, passando nei panni dei più oscuri personaggi della storia, fin quando non venne condotto a furor di popolo sulla ghigliottina. Dal palco vide una folla immensa partecipare attenta e commossa alla sua decapitazione, condannato come censore delle nuove arti e della poesia. Si era miseramente rassegnato, abbandonandosi ad un inevitabile destino e provava unsenso di composta e meccanica rassegnazione, quando vide nella folla due occhi vispi e lucidi: Metrìc ! Ma era giunto il suo ultimo momento: la distanza e la folla erano tali da rendergli un senso di sicurezza, seppure in un contesto alquanto privo di prospettive per l’avvenire. Nei suoi ultimi secondi si arrampicò sul sentimento della speranza di terminare indenne la vita, grazie alla lama che a momenti gli sarebbe precipitata sul collo. E’ strano come anche nelle più infelici circostanze la mente umana non rinunci a fare programmi per il futuro, ma tra i due supplizi che l’attendevano, Rimée non aveva dubbi, anzi provava un senso di riconoscenza verso il boia e idolatrava con gli occhi la lama sospesa e luccicante sullo sfondo d’un cielo azzurro, che presto l’avrebbe liberato dalle immani torture dei nuovi versi che già vedeva gorgogliare sulle labbra del poeta. Aveva però sottovalutato l’agilità di Metrìc, che riuscì a fendere la folla compatta e lo schieramento delle guardie,per elevarsi con un ultimo balzo sul podio nell’istante stesso in cui la sua testa mozzata cadeva nel cesto. L’estremo ultimo fiotto di vita gli concedeva di vedere Louis Metrìc precipitargli affannosamente accanto, nell’atto d’improvvisare i versi del suo epitaffio, per farglieli gustare prima dell’ultimo respiro. Il risveglio fu brusco e immediato, come la decisione di trasferire le letture dei giornali in un altro bistrò, scompaginando l’intero ordine della sua vita, cosa che in anni di insistenze non era riuscita a fare la moglie, che non sopportava che frequentasse un luogo così dégagé. Nel girovagare alla ricerca del più defilato dei locali di St. Germain, avvertì la stessa sensazione che aveva provato più d’una volta durante una di quelle cene all’impiedi, dove per fare spazio agli ospiti si fanno sparire tutte le superfici utili per appoggiare stabilmente un piatto. Prima o poi il suo distratto girovagare lo avrebbe condotto fin dentro la cucina, dove non poteva mancaredi curiosare tra le casseruole in ebollizione. Una volta gli capitò l’irrefrenabile impulso di afferrare il coperchio di un pentolone in pressione, che non mancò di espellere un’onda di vapore che lo investì in pieno viso né più né meno come quell’ orrendo ed inatteso sciorinar di versi di Louis Metrìc. Ma quest’ultima esperienza gli sembrò di gran lunga la più terribile. Fu così che aggiunse alle cose da evitare, oltre le cucine e i pentoloni bollenti, i luoghi e i tavoli dei bistrò dove potesse aggirarsi un certo Louis Metrìc, divenuto poeta per una sua imperdonabile disattenzione.
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