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Guerra
e dopoguerra
Renzo
Vespignani: pagine dal Diario
pubblicato ne "Il Pro e il Contro - Bottega della giovane arte
italiana"
2
settembre - 12 dicembre 1943
Siamo
un centinaio di reclute ancora vestite in borghese, con i bracciali
tricolori già sudici e scoloriti. Non sanno dove metterci
né come utilizzarci: bighelloniamo sperduti nella caserma
deserta, sotto i portici del cortile, strisciando i piedi nella
paglia marcia, affacciandoci negli uffici vuoti e polverosi, su
per le scale color cemento, come malati in un ospedale abbandonato.
Solo verso le dieci una tromba disperata ci raduna al centro del
cortile e un ufficiale dallo sguardo deluso, impaurito, ci conta
sei o sette volte sbagliando sempre. Poi ancora la tromba ci disperde
per le camerate o nelle latrine.
Ieri non hanno distribuito il rancio. Oggi nel pomeriggio, spinti
dalla fame, ci siamo accalcati sulle scale sdrucciolevoli delle
cucine, sbattendo le gavette contro la ringhiera. Facevamo un fracasso
infernale. Finalmente un sergente, dall'ultimo pianerottolo, s'è
messo a urlare: - arrangiatevi, cretini! e tutti tumultuando siamo
entrati negli scantinati. Le caldaie erano spente, puzzolenti di
grasso. Non c'era nemmeno da raschiare le pentole.
E ancora nel cortile, sotto i portici.
Le brandine della camerata erano già tutte occupate, e mi
sono buttato sull'ultimo pagliericcio, contro la parete di fondo.
Il crine dell'imbottitura sa di cavallo e d'erba bagnata. Sulla
mia testa s'apre un finestrone senza vetri, pieno di un cielo giallognolo,
basso, attraversato dal volo corto dei pipistrelli. Le sere sono
ancora lunghe e calde, ma questo cielo coperto, senza speranza di
pioggia, è già un autunno tristissimo. I ragazzi sulle
brande sono silenziosi. Poi l'aria è piena delle campane
di S. Maria Maggiore. Come per un segnale, qualcuno s'alza e va
alle finestre. Anch'io, preso alla gola dal fortore del giaciglio,
m'appoggio al davanzale e guardo giù nel cortile: così,
tutto cosparso di paglia, sembra l'aia di una grande fattoria. Le
campane ci ronzano ancora nelle orecchie, quando qualcuno sbuca
dai portici gridando: - a casa, a casa! ... la pace!...,Subito altri
cinque o sei gli schizzano dietro a rompicollo, a testa bassa, come
sotto un bombardamento.
E ci buttiamo anche noi giù per i gradini smozzicati.
Sono corso a casa. Mia madre non c'era, l'ho trovata in coda alla
fila per l'acqua, al capolinea della stazione. Mi abbraccia piangendo:
è finita bene... è finita.
Poi con Rinaldo e Armando siamo andati fino al campo sportivo. Per
le strade torme di ragazzini correvano battendo sui vecchi bidoni
una specie di funebre marcia militare. Le comari alle finestre si
chiamavano e ridevano istericamente. L'osteria del Tranviere era
piena di operai in festa. Circondato da una diecina di sterratori
anche un tedesco del servizio ferroviario, un tipo anziano con gli
occhiali spessi e affumicati, brindava alla pace.
Di notte, verso l'una o le due, sono stato svegliato da un lontano
rumore, come un rimbombare di magli, soffocato e continuo. Mi sono
affacciato: la luna attraverso gli squarci delle nubi faceva giorno.
La strada era deserta, la ferrovia spenta. Verso la campagna, oltre
il cavalcavia, luci azzurre intermittenti; un convoglio di macchine
sulla Tiburtina. - Che fai? - la voce della mamma era rotta dall'inquietudine
- torna a letto che prendi freddo... A letto, supino, non riuscivo
a riaddormentarmi. Con gli occhi chiusi tendevo l'orecchio a quel
lontano rullare di tamburi. Improvvisamente una cicala cominciò
a stridere negli alberi della Villa. - Cos'è? - chiese ancora
mia madre, nel buio. Una cicala. - No... non ti pare di sentire
dei colpi? - Sì. Mio fratello entrò nella stanza con
un cerino acceso, raccolto nel cavo della mano - Li sentite? Spense
il cerino e dallo scricchiolio della rete capii che s'era seduto
sul letto. Ascoltammo in silenzio, a lungo.
Sera caldissima: dalla campagna sale una cortina di nuvole sporche.
Ma non pioverà. La Tiburtina, all'imbocco del cavalcavia,
rigurgita di automezzi militari, fermi, i motori spenti. Una moltitudine
di soldati s'è accampata sui marciapiedi, negli orti intorno
alla ferrovia, e sotto gli alberi della Villa. Li disegno dalla
finestra. Mi ricordo di Fattori e istintivamente cerco di incastonare
ombre e luci con un taglio nitido, secco. Ma il segno è troppo
impreciso, e quelle figure in movimento, tra i cespugli, mi sfuggono.
Dappertutto fumano i fuochi delle cucine improvvisate. Intorno alla
fontanella - la sola che funzioni nel quartiere - borghesi e militari
si accapigliano per un secchio.
Cinque o sei bersaglieri, in mutande e canottiera, abbattono il
pino sulla scarpata della segheria: menano grandi colpi d'ascia,
ma senza sincronia e con pochissimo effetto.
Con Rinaldo faccio un giro fino allo scalo. t pieno di silenzio.
Anche le locomotive di manovra sono immobili, le caldaie fredde.
Non c'è anima viva. Soltanto dietro un vagone sfondato dal
bombardamento di luglio, un brutto cane rossiccio con le zampe posteriori
stroncate e sanguinolenti, si lamenta pieno, disperato, come un
cristiano. Rinaldo vorrebbe finirlo a colpi di pietra, ma come si
avvicina la bestia scopre i denti bavosi. Ce ne andiamo con quel
lamento nelle orecchie, risalendo i calanchi fino al muro del Cimitero.
Lungo il viale, a intervalli regolari, incontriamo qualche sentinella
stravaccata nella polvere, il fucile tra le ginocchia, gli occhi
velati di sonno.
Riguardo il lavoro fatto nel pomeriggio: Dio santo! volevo disegnare
un esercito in rotta, non una scampagnata.
Tre carri armati sferragliano per il Corso. Sotto i cingoli saltano
zolle d'asfalto, e schizzano sulla folla costretta nei marciapiedi.
Qualcuno dalla porta del caffè Aragno grida evviva, e i carristi
rispondono agitando le mani.
Scantono verso S. Silvestro. Molta gente anche qui, ma silenziosa,
intenta all'eco dei combattimenti, così vicina che sembra
venire dalla Borsa. I negozi sono chiusi. Davanti alla libreria
Hoepli una diecina di fanti, le giacche sbottonate, le fasce sciolte
e gli occhi cerchiati di rosso, febbrili, cercano l'imbocco della
via Aurelia.
Sotto la Galleria Colonna un gran cerchio di gente. C'è un
soldato morto, senza scarpe, davanti alle vetrine del tabaccaio.
Ha il volto incipriato di polvere, esangue. Dicono sia stato un
incidente, ha appoggiato il fucile in terra e l'arma ha sparato
da sola. Altri parlano di suicidio, non reggeva al dolore della
disfatta. Macchè! Basta guardare quel volto quadrato, sommario,
da ortolano, per capire che voleva soltanto tornarsene a casa, dai
suoi. Gli si è gelata sulle labbra una piega di stupefazione.
Solo i suoi piedi nudi, gonfi di vesciche, sembrano ancora vivi.
Subito dopo mangiato scappo nelle strade. C'è poca gente
che chiacchiera sulle soglie dei portoni. Il cielo è coperto,
l'aria immobile e afosa. Sulle piazze è una luce tesa, senza
ombre. Una luce che sembra insudiciare ogni cosa. 1 palazzi hanno
il colore del fango secco.
Appoggio la bicicletta alla fontana di Piazza Colonna, e mi bagno
la fronte con l'acqua che stagna nella vasca, maleodorante come
piscio. Poi proseguo verso S. Paolo. Oltre via dell'Impero sembra
di traversare un deserto: via dei Trionfi, la Passeggiata Archeologica
schiacciata da una grande cappa livida. Sotto il monumento a Scanderberg
gruppi di civili spiano verso Porta S. Paolo. Qualcuno è
armato di moschetto, altri hanno vecchie pistole a tamburo. Un tipo
maturo di commendatore, in maniche di camicia, stringe con evidente
nervosismo un mitra fiammante, ancora lucido di grasso.
Davanti all'ufficio postale dell'Ostiense, allineati sul marciapiede,
una dozzina di feriti, tutti militari, ci fissano senza un lamento.
Sotto di loro s'è allargata una macchia scura e brillante.
Stamattina per la prima volta ho visto un soldato tedesco "nemico".
Aveva un viso roseo, impubere, e un sedere enorme.
Ieri la mamma ha trovato un pacco di fagioli e di carne sul gradini
dell'ufficio postale di Piazza Bologna. Doveva essere caduto dalla
borsa di qualcuno. Mangiando avevamo un certo timore che la carne
fosse guasta o avvelenata, ma era tanta la fame che la sparecchiammo
in un attimo. A cena un uovo sodo ciascuno.
Questa notte, un po' prima che sonasse l'allarme, Adrianella è
scoppiata a piangere svegliando tutti.
Come i cani e le galline, i bambini sentono avvicinarsi il terremoto.
Sono andato a passeggiare verso il cavalcavia. C'era un gran traffico
di autocarri tedeschi. 1 fascisti avevano fermato i tram al capolinea,
per dare via libera alla colonna. Discendendo l'argine in direzione
dello scalo ho sorpreso, senza volerlo, due amanti acquattati nei
cespugli. La donna piagnucolando cercava di coprirsi le cosce. L'uomo
è balzato in piedi e mi ha cacciato a sassate.
Correndo sono arrivato fino alle tettoie della stazione. Erano in
parte crollate per il bombardamento dell'altro ieri. Una dozzina
di operai spalavano le macerie. Parecchi borghesi osservavano in
silenzio. Improvvisamente si è sentito un grido e tutti si
sono messi a correre verso una frana di calcinaccio. Mi sono guadagnato
un posto in prima fila, e ho visto un braccio tumefatto che affiorava
dalle rovine. Gli operai con qualche colpo di pala hanno portato
alla luce due cadaveri, un uomo e una donna. L'uomo doveva essere
stato un borsaro nero, perché aveva le tasche del cappotto
gonfie di pane e di carne ormai putrefatta. La donna era terribilmente
sfigurata, col cranio scoperchiato, il collo quasi reciso, e le
gonne oscenamente rovesciate sul ventre. Le labbra avevano ancora
tracce di rossetto.
Tornato a casa ho cercato di disegnare a memoria la scena. Non mi
è riuscito di ritrarre la folla dei curiosi, non sono capace
di comporre molte figure. 1 due morti, invece, li avevo ancora davanti
agli occhi: ho disegnato la donna curando soprattutto l'intensità
stravolta del viso, ottenendo a forza di chiaroscuro il gonfiore
delle carni. L'uomo m'è riuscito meno bene, insistendo col
nero l'ho ridotto a una specie di troncone carbonizzato.
Ho disegnato una gran folla che assalta un magazzino di alimentari.
Il disegno rende con una certa energia il senso della confusione
e della violenza, ma le figure sono assai incerte, e si accavallano
senza alcuna regola di composizione. Il soggetto, per ora, è
superiore alle mie capacità. Cosi sono stato costretto ad
annegare nel nero tutti i particolari troppo difficili, le mani,
i visi. Alla fine mi sono accorto che mancava al lavoro una luce
unitaria. Ho studiato a lungo la Crocefissione incisa da Rembrandt:
anche qui la folla è ricavata dal nero, ma tutta questa oscurità
non nasconde i personaggi, li definisce invece con grande precisione
e libertà. Rembrandt aveva a disposizione una vera e propria
tavolozza di neri: alcuni vellutati, quasi trasparenti, altri intensi
e corposi. Riusciva cosi a creare spazio e volumi, a stabilire un
centro luminoso nella composizione, al quale subordinare i vari
elementi, ciascuno secondo un particolare valore emotivo e formale.
Ho tentato il ritratto di Duccio, un vecchio sarto che abita il
piano di sopra. E' un nano malignetto e beffardo: - Guarda che portafoglio
pieno... - dice battendosi la gobba che gli gonfia il petto sulla
destra. P- così piccolo che sto per farlo sedere sul seggiolone
di Adrianella. Mentre lo disegno mi guarda con certi occhi sbarrati,
malinconici, come quelli di un bue. Posa così immobile che
sembra, grigio e spelacchiato, uno di quei coboldi di cemento che
si mettevano un tempo nei giardini. Vuole che gli mostri il lavoro
e poiché ne ho forzato le deformità lo guarda in silenzio,
deluso e forse un po' offeso. Poi mi toglie d'imbarazzo con una
battuta: - Mi hai fatto più ricco di quello che sono.
Stamattina sono uscito prestassimo, per lavorare sulla strada dello
scalo. C'era una luce assai bella, contro il cielo grigio e trasparente
le tettoie dei capannoni, le antenne e i segnali della ferrovia
spiccavano nerissimi. 1 prati, coperti di brina, erano vuoti. Ho
disegnato fino alle undici, sempre con la paura di essere sorpreso
dalle sentinelle: la ferrovia è zona militare. Ero però
ben nascosto dietro una macchia di ortiche.
Nel pomeriggio sono tornato a finire le tettoie e l'intrico dei
fili spezzati lungo la linea elettrificata. Ho camminato poi per
un bel tratto lungo i binari, fino al passaggio a livello di S.
Agnese. In un tronco morto ho scoperto tre vagoni squarciati dalle
bombe. Mi sarebbe piaciuto disegnarli, ma era quasi l'ora del coprifuoco.
Stasera, pochi minuti dopo l'inizio del coprifuoco, io e la mamma
ce ne stavamo alla finestra del mezzanino. Tutta la via era deserta,
le finestre accecate. Il sole era appena tramontato ma c'era ancora
molta luce. Dal fondo della strada è sbucato un tedesco,
di questi che sorvegliano la ferrovia. Camminava lentamente, rasente
il muro, guardando alle finestre come temesse un'imboscata. Aveva
un pacco sotto il braccio. Scorgendoci ha avuto un soprassalto.
La mamma già stava per ritirarsi e chiudere le imposte quando
il tedesco, con un gesto preciso, m'ha lanciato l'involto. L'ho
colto al volo. In cucina lo abbiamo aperto: conteneva una forma
di pane nero.
Stamattina hanno mitragliato la ferrovia e il viale del Cimitero.
Le sirene d'allarme, come al solito, non hanno funzionato in tempo,
e la gente s'è precipitata nelle cantine calpestandosi. Cesira,
la figliola dei Germini, si stava lavando ed è scesa mezza
nuda. Passata la prima paura, cerca di coprirsi con l'asciugamano,
che è troppo piccolo per il suo pudore: se protegge i seni,
scopre le gambe e la fossa bruna del grembo appena velata dalla
sottoveste. E tuttavia nessuno le bada, poiché fuori lo scroscio
delle mitragliatrici, come un temporale, ci costringe ad una esistenza
animale, assottigliata. lo solo la guardo, ma senza emozione: quella
sua bianca nudità, così tenera, così indifesa,
mi dà solo una gran pena: per la sua e la mia giovinezza,
per la vita di tutti.
Nel pomeriggio sono andato a vedere i danni dell'incursione. Il
muro del cimitero era tutto butterato di colpi. Sul ponte c'era
un cavallo morto, e due tedeschi che montavano la guardia, tenendo
lontana una folla affamata, munita di secchi e coltelli, che voleva
farlo a pezzi.
Dalla finestra della cucina guardo annottare nel cortile. Qualcuno
imbocca di corsa il portone, tra poco è il coprifuoco. Poi
mi metto accanto al braciere. La mamma siede vicino a me, e mi tiene
le mani per scaldarmele. Ignazio si nasconde la faccia coi gomiti.
Nessuno ha voglia di parlare.
Stavo disegnando i vagoni sventrati sul binario morto di S. Agnese,
quando un tedesco è sbucato improvviso dall'oscurità
del tunnel. Era troppo tardi per scappare, così ho continuato
a lavorare. Il tedesco mi si è messo alle spalle, il suo
respiro affannato quasi sul collo. Poi si è seduto vicino,
e ha estratto fuori dal tascapane una di quelle brune pagnotte militari
che sembrano impastate di saliva. Ne tagliava con un coltellino,
accuratamente, striscie sottilissime. Masticava con tanta penosa
pazienza che subito immaginai dovesse essere un contadino.
A tratti gli davo un'occhiata di sbieco, ma senza parere, quasi
non mi fossi accorto della sua presenza. Non riuscivo però
a guardarlo in volto: controllavo le sue mani rosse di geloni, goffe,
dalle unghie brutalmente squadrate.
E' rimasto cosi per un pezzo, sempre in silenzio. Sentivo solo lo
scricchiolio delle sue mascelle. Poi si è alzato, e ancora
alle mie spalle ha guardato il disegno. Non buono - ha detto, e
se n'è andato rigido come un automa, lungo i binari, fino
a scomparire nella cavità nera del tunnel.
Che vento tirava stamattina sul ponte! Ho lavorato riparandomi dietro
il muro della segheria. Verso mezzogiorno si sono sentiti degli
spari oltre il cavalcavia. All'altezza del casotto del capolinea,
un uomo s'è messo a correre alla disperata verso il viale.
Gli sparavano dietro e si vedevano le pallottole che scheggiavano
l'asfalto. Ma ce l'ha fatta, è scomparso nelle vie del quartiere.
All'alba due camion tedeschi hanno bloccato Via Arduino, le uscite
del cortile, i recinti della Villa. Con Rinaldo e gli altri ragazzi,
ci siamo acquattati nel nascondiglio sotto le cantine. Sembravamo
tagliati fuori dal mondo, al buio, nel freddo. Quanto abbiamo atteso?
Dopo un'ora o forse due, abbiamo acceso un fiammifero: quel punto
luminoso e tremante mi ha ricordato un'era remotissima, quando giocavamo
agli indiani nella cava di tufo abbandonata.
In un angolo, confusi nel terriccio, abbiamo scoperto cinque o sei
teschi di gatto, fragili, levigati. Qualcuno, forse al tempo della
costruzione dell'edificio, murò viva in questo buco un'intera
cucciolata.
Siamo usciti che era quasi sera. I tedeschi avevano portato via
Duccio, con altre due famiglie di ebrei.
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