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La
buia tana dell'indicibile
Renzo
Vespignani: dal Diario in terza persona, in "Il Pro e il Contro",
Roma, 1964
...
Ed ora, dopo tanto nascere di immagini subito rotte appena composte,
e il colore in cancrena (l'ebrezza di tenere aperte ad ogni costo
le ferite della pittura) sentiva l'impossibilità di mante
quell'incerto equilibrio tra il furore e i pretesti del furore:
gli oggetti combusti, quasi li estraesse magma di una antica eruzione,
erano impari alla tensione cui li costringeva. Per mesi aveva dipinto
con una pena tutta fisica, così vicino alla tela da contrarne
una specie di miopia spirituale. La pittura s'arricciava vischiosa
come un fungo velenoso. Improvvisamente il segno di una matita gli
velò la possibilità di una forma distaccata: era una
traccia limpida quella della grafite, che pot registrare una gamma
infinita di toni, dalla scalfittura crudele alla dolcezza della
penombra, grigi nessuna tempera o inchiostro potevano uguagliare,
radiografici e vibratili.
E, come sempre, la scoperta fortuita di un effetto, la materia che
obbediva (quel senso di felicità che dà la tela quando
risponde, e il colore o il carbone, quando sembrano uscire dalle
dita, direttamente, come una naturale secrezione della fantasia)
parevano liberargli la mente di ogni incertezza. L'incerto era finalmente
"quel" segno, e il segno snidava le immagini dalla mente
come un ut erano la cella di esatte proporzioni dove avveniva la
sua lenta metamorfosi. O già s'era compiuta dal momento che
S. sembrava aver superato le fasi ninfali; lasciata chissà
dove, forse in un angolo polveroso, il solo polveroso della casa,
sotto il letto, la molle cuticola larvale, sfoggiava adesso smagliante
tegumento di insetto perfetto. I suoi gesti non lasciavano dubbio
in proposito, fitti e nevrotici, quelli di una mosca che si netta
la proboscide e le ali. E quando prese a firmare l'assegno - dopo
il tè bisognava pagare il quadro - le sue mani svelarono
una potenziale crudeltà (quella delle chele) nel modo di
stringere la penna, di batterla sul cristallo che specchiava un
suo mutilato tratto, un occhio, parte della bocca socchiusa. A che
gli serviva il quadro? Sarebbe entrato, come altri oggetti, nel
nudo ordine prospettico del suo nido, accettato appunto come elemento
necessario a chiudere una rete di parallele e perpendicolari.
Il risveglio di S. doveva essere stato tranquillo, la conclusione
di un naturale processo di mimetismo e omicromia, inavvertibile
quindi come i movimenti necessari al respiro: non la stupefatta
e penosa nuova condizione di Gregorio Samsa, che s'aggrappava disperatamente
alla porta con le sue cinquanta zampine, ascoltando le voci degli
uomini, di un mondo che voleva ancora, tenacemente, suo. La parabola,
nel caso di S., andava riscritta in senso contrario: non degradazione
ma conquista, mutazione coerente e non regressiva. Egli infatti
sembrava trionfare, e per quel riuscito adeguamento, più
libero realmente, pronto a compiere gli eterni cicli della riproduzione,
sorrideva: "Vedi?" diceva, e schiacciato il bottone che
comandava l'apertura delle immense finestre, assisteva al sincrono
sollevarsi delle serrande sul passaggio neo-liberty. E non era,
il suo, il vanto puerile del nuovo ricco che mostra un costoso giocattolo:
bensì l'orgoglio di chi tranquillamente può aprire
le finestre; poteva dire, affacciandosi sul paesaggio regolare come
una cristallografia, di essere completamente rassicurato circa i
rumori in cantina. Mai più la porta avrebbe potuto aprirsi
d'un tratto, le tende venire scostate, il tetto sparire, la cantina
fare una tremenda rivelazione.
Del resto, poiché doveva essere ancora capace di una rudimentale
emotività (morti i sentimenti la gente viveva in un caldo
e appiccicoso bagno di estetismi, di commozioni ancestrali "rammodernate"
fino a raggiungere la sicurezza del sentimentalismo): - Dovresti
vedere la sera - disse - la sera è bello, più bello,
non so come dire e tu dovresti capirmi, sembra d'essere a New York...
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