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Antologia storica

... Le opere appaiono infatti eterodosse, rispetto a ciò che correntemente si identifica con l'arte attuale e sarebbe assurdo giudicarle con lo stesso metro; cioè in astratto, slegate sia dalla particolare visione della vita, sia dalla volontà dell'artista: che è di realizzare, quasi evocandole dal mondo della fantasia, immagini adatte a riflettere puntualmente i contrasti tra la visione e la realtà dei mondo e l'acuto senso di allarme, quasi di panico esistenziale che in quei contrasti trova sempre nuovi alimenti.
Riccardo Tommasi Ferroni coltiva infatti espressioni d'arte che si rifanno alle idee, produce quindi disegni e dipinti che quelle idee esprimono con tutto il carico di sotterranea e sottesa immaginazione, ricorrendo ad artefici di tecnica accuratamente elaborati, perché ai limiti del possibile, le idee prendano corpo, diventino forma concreta.


... Le scene di corrida, le sculture che diventano presenze animate sui monumenti della Roma barocca, le ruspe che aggrediscono le facciate delle chiese o scavano terriccio ed ossame, i cavalli che si impennano davanti ai mostri meccanici, suggeriscono sempre, nel loro insieme, il battito di un'ala di morte e di violenza, mentre con ciascuno dei loro particolari esprimono le reazioni di una sensibilità che è continuamente ferita dallo spettacolo di corruzione e degradazione delle cose e dell'esistenza.

Luigi Carluccio
"Gazzetta dei Popolo", Torino 28 novembre 1968



... Surrealismo, realismo magico, si dirà, e si è detto: giustamente, aggiungo, in quanto ciò serve a indicare quella grande linea visionario dell'arte europea di recente riscoperta e valorizzata nella quale, come ha ben chiarito Fortunato Bellonzi, il Tommasi Ferroni si colloca non come epigono, ma come una potentissima carica creativa e con una copiosità di fantasia tali da farla apparir cosa nuova, o quanto meno di dischiuderle inediti orizzonti. Non si era infatti mai verificata in alcun artista, almeno ch'io sappia, una simile capacità di amalgamare in una perfetta unità che non è soltanto di pura trascrizione o interpretazione formale così disparate, distanti, e persino reciprocamente aberranti, suggestioni di cultura, di "memorie illustri" e meno illustri, non dissimulate, ma palesemente denunziate: onde, ad esempio, nello stesso quadro possono convivere concettualmente e stilisticamente il canestro di frutta del Caravaggio e le combustioni di Burri mentre Paolina Borghese è divenuta una ripugnante, e pur contegnosissima, megera sotto la semisfera di un moderno paralume di serie. Ma al di là delle motivazioni profonde che possono aver indotto all'appropriazione integrale di queste immagini o alla loro dissacrazione e che a mio avviso si identificano nel fascino fatale e forse, angoscioso con cui il tempo storico, del passato come del presente, preme sulla sensibilità allarmata di un artista eccezionalmente colto, e naturalmente anche a prescindere dall'enorme contributo personale di cui il Tommasi Ferroni è responsabile nell'"inventare" figure e situazioni, più che ambigue e improbabili, oscuramente provocatorie se non di aperta denuncia e che pertanto così puntualmente incidono sulla condizione dell'uomo e della società del nostro tempo, importa affermare la piena, assoluta validità della sua pittura anche sull'"altro" versante della ricerca artistica: quello al quale una tecnica così analitica e un magistero prodigioso, che attinge il virtuosismo, sembrano volersi sottrarre. Il Tommasi Ferroni infatti, mentre apparentemente dichiara la sua acquiscenza, o la sua integrazione, all'Accademia, in realtà la sfida con inaudita intrepidezza e trionfa su di essa. In breve, vince la sua vera pittura.

Enzo Carli
"Arte e Scrittura", Siena 6-25 gennaio 1972



... non riesco a vincere una sensazione di spaesamento dovuta non solo al colmo di ambiguità che monta irresistibile da ogni quadro ma anche, e direi soprattutto, al riscontro - ancora una volta preciso e puntuale - della inadeguatezza dei nostri strumenti di indagine nei confronti degli artisti che hanno operato al di fuori degli schemi di tendenza attraverso cui la dialettica critica si è svolta - e non poteva non svolgersi così - nel secolo delle avanguardie. Ma qualcosa vi è pure di mutato: stabilito una volta per tutte che l'arte è morta e che le avanguardie - carnefici di pochi riguardi anche nei propri confronti - hanno compiuto il prevedibile suicidio, personaggi ed opere come quelle di Tommasi Ferroni continuano ad esserci o, se si preferisce, ad "apparire" come è tipico della loro natura di fantasmi della coscienza.

Non è un caso, quindi, che Fortunato Bellonzi abbia potuto scrivere che le opere di Tommasi Ferroni "possono essere intese meglio, nel loro valore autentico, ora che finalmente si comincia a dubitare che l'intera storia dell'arte moderna si svolga lungo la sola linea che conduce all'impressionismo o ne consegue". E' cosa, questa, che avrà ripercussioni ben più ampie di quelle che, giustamente, Bellonzi ipotizza come risultanti del rilevamento di una linea "parallela" che passa da William Blake ai preraffaelliti, da Moreau a Bócklin, al primo e ultimo De Chirico (candidamente riscoperto "oltre l'avanguardia" soltanto ora) fino a toccare tutto ciò che in qualche modo si è opposto "al positivismo, allo scientismo, alla civiltà tecnologica e mercantile".

... Ha ragione Trombadori quando ricorda che spazio reale e spazio irreale sono pure convenzioni linguistiche, ma non è indifferente, credo, che Tommasi Ferroni sia fra i pochi che, oltre ad aver capito questa cosa semplicissima, ne abbia anche tratto alimento per quelle che io definirei le sue perversioni pittoriche e che altri con un richiamo non inopportuno a Max Klinger - hanno visto come "provocazioni", sostenute perfino dal fanatismo del mestiere.

Tommasi Ferroni ha semplicemente interpretato, restituendocela in immagini, la propria condizione di attualità inattuale, ed è in questo spaesamento nell'oggi che egli trova le ragioni più vere della sua modernità.

Franco Solmi



... Come, è meglio dire, un segno di contraddizione nel panorama così vario della pittura italiana d'oggi. Fuori dalle ricerche d'avanguardia, sia nel senso dello sperimentalismo e del concettualismo, sia nel senso dell''illusione ottica di tipo fotografico

L'uomo e la realtà egli li vede con un occhio sulla tradizione, e dalla tradizione, a volte letteralmente, certi motivi figurali, senza operare scelte di epoche o di gusto, per farli confluire in un contesto nuovo.
Pittore di cultura, insomma; al cui servizio può mettere una tecnica che sembra illimitata nella capacità di definire con estrema acutezza la materia di cui son fatte le cose; dalla pelle di un nudo di giovinetta all'acciaio cesellato di un'armatura . Questo è forse l'aspetto che affascina il grande pubblico, ed è anche realmente il punto di maggior merito dell'artista, tutto preso dalla propria abilità, dalle finezze del mestiere e dal giuoco delle che istituisce tra le fìgure sospese a mezza strada tra antico e moderno.

Le sue grandi composizioni sono percorse già da uno spirito di ironia e di malizia (anche quando riproduce mirabilmente a sfondo di un suo quadro un dipinto di Burri, o accampa in un interno una scultura di Pomodoro).

Luigi Carluccio
"Gazzetta del Popolo", Torino 7 febbraio 1973


...Il giovane pittore romano conosce invece tutte le sottigliezze di una pittura fatta di velature e quindi è già in una posizione indipendente e privilegiata. In più, non si lascia assorbire dal fascino del museo; semmai se ne serve con una disposizione di spirito che sta tra l'ironia e la crudeltà. In questo, risente molto dello spirito d'oggi disincantato dinanzi a qualsiasi spettacolo. Il suo accostamento al museo non è una semplice rivisitazione, ma uno scandaglio critico. Di solito si accosta a Goya e al Settecento napoletano; ma non si dedica a ripetere i lustrini di una classe nobile, ma piuttosto osserva i tarli che ormai mangiano i drappi di seta, che corrodono le nappe e direi anche le occhiaie dei vecchi parrucconi. Ha vivissimo il senso dello spettacolo e il suo quadro è quasi sempre una recita di guitti impennacchiati sotto i riflettori. Per cui le situazioni si complicano e si capovolgono in atroce beffa al di sotto dei costumi più bizzarri. Memorabile è un suo precedente quadro dove la regina di Spagna è sotto i riflettori come una maschera imbellettata che attenda il regista, che può essere anche la morte, e intorno a lei si ammassano stracci e broccati già rigidi come sudari di falso nylon.

Marco Valsecchi
"Il Giornale Nuovo", Milano 28 gennaio 1975


... Siamo forse dietro le quinte di un teatro, dove si trovino riuniti attrezzi e praticabili di commedie e drammi diversi? Questo semmai ci dice che la contaminazione, l'associazione di elementi figurativi diversi, anzi disparati, fa parte del giuoco con cui Tommasi Ferroni irretisce l'occhio dello spettatore e la curiosità del critico; ma non può far del tutto dimenticare che la composizione insegue un pensiero nel quale fiducia e sfiducia nel tempo, nella funzione dell'arte, nel destino del pittore si mescolano. Né che i mezzi pittorici messi in atto non sono semplicemente una copia dei mezzi antichi, ma rispondono ad una precisa volontà di eliminare l'approssimazione e l'informe. Che la tecnica dunque fa parte della polemica dell'artista.

Luigi Carluccio
"Gazzetta del Popolo", Torino 5 maggio 1976


... Tommasi Ferroni non è certo un artista che si fidi dell'istinto o delle emozioni. Ogni retorica dell'immediatezza, del vissuto, lo infastidisce, ne ride non credendo che valga nemmen la pena di confutarla. E' certo che la pittura è essenzialmente un fatto tecnico, quindi intellettuale.

Se gli chiediamo perché dipinga, Tommasi Ferroni non si rifiuta di parlarne, non si rifugia in un generico, misterioso e presuntuosissimo, non so; scaricando ogni responsabilità sull'"inconscio". La pittura per lui è una sfida cosciente: che si realizza nel dominio della tecnica. La vince chi dipinge meglio. A guardare i competitori stanno i grandi maestri del passato, quelli del seicento in prima fila.
Ma è possibile, mi chiedo, una competizione del genere? Con quei giudici? Quelli, intendo i maestri del seicento, erano dei maghi; avevano un mestiere troppo elaborato, complesso, per le nostre piccole menti. Forse possedevano nel loro laboratorio segreti che sono andati persi. Al confronto i "maestri" dal primo ottocento a oggi, sembran tutti dilettanti, gente dal vocabolario ridotto, senza misteri. E qui sta lo sbaglio, spiega principescamente melanconico Tommasi Ferroni. E' esattamente il contrario. La pittura, proprio con l'ottocento, è diventata tecnicamente molto più complessa e difficile. Perché, rifiutando romanticamente tutte le convenzioni, le regole, i canoni, la maniera per dirla in una parola, ogni pittore s'è creduto in obbligo di inventare il proprio linguaggio tecnico. E' cominciato così il rimestìo, il rimuginìo, il pasticcio, fino alla totale scomparsa di qualsiasi stile. I maestri veri invece erano individuali e originali proprio perché, accettando un linguaggio comune, una maniera, erano poi liberi di inventare, col disegno, quel che volevano. La loro tecnica pittorica non ha nessun segreto. E' semplicissima.
Con un po' di pazienza e di idee chiare si potrebbe impararla.

Testimonianza di Manlio Cancogni
"Tommasi Ferroni", De Luca Editore, Roma marzo 1978



...Ora i quadri di Tommasi Ferroni hanno il carattere di centoni o retractationes di pitture classiche che si presterebbero a un questionario d'esame di storia dell'arte per accertare l'abilità dei candidati a identificare e attribuire i reperti. Ma naturalmente questa ne sarebbe una lettura maligna. Piuttosto, siamo qui dinanzi a un museo immaginario messo assieme con campioni dell'arte universale, soprattutto secentesca?

Nelle mascherate di personaggi dei quadri di Tommasi Ferroni (che mascherate sono come nei Capricci del Callot) l'antico e l'eroico rasentano il quotidiano: sembra una parodia, ed è invece una Vanitas, al modo di quelle nature morte olandesi in cui il fiore e il teschio e la clessidra si accostano, e dalle occhiaie del teschio spunta la rosa, e al nobile strumento musicale s'accompagna l'utensile domestico, e l'utensile assume l'atteggiamento della nobiltà, e il liuto posto accanto al liuto non risponde con una concordia di suoni al tocco delle corde del compagno, ma inserisce una nota discorde. La chiave dell'enigma umano. I personaggi di Tommasi Ferroni assumono le prestigiose assise degli eroi, e non sono che poveri guitti. L'arte moderna prende coscienza del ricordo della sua lunga gestazione, e ne mima gli eroici atteggiamenti coi suoi sussulti epilettici. Prova un brivido nuovo al ricordo delle stagioni abolite, nell'ambito di una cultura che non può non considerare illusorie quelle immagini antiche. Onde una sorta d'immane cinepresa da cui spunta la mano designatrice del Cristo invisibile fotografo irrompe nell'ambiente della chiamata dell'apostolo Matteo impersonato dal pittore medesimo accanto alla giovinetta sbarazzina sua modella che a posato per tanti suoi quadri. Così il pittore trae partito da un cerimoniale e da n rito deformati, finge di rendere attuali tempi in cui quelle figurazioni avevano n valore religioso e liturgico, si vale del ago prestigio della loro antica sacralità per dissacrarla in una parata degna del museo delle cere di Madame Tussaud. L'attività artistica del pittore conserva un apporto privilegiato con la favola in un mondo in cui questa da tempo non è più a forma dominante del sapere. Come nelle battute finali della Terra desolata di .S. Eliot par che dica il pittore: "Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine". Il centone, le retractationes gli servono a puntellare la sua favola di Vanitas.

E in Tommasi Ferroni abbiamo la piazzetta di Santa Maria della Pace, architettura esemplare, ingombra da un relitto da cimitero di automobili; una Lamborghini rossa vomita scheletri ai piedi di uno degli angeli di Ponte Sant'Angelo; riflettori di ripresa cinematografica si librano sul campo di battaglia di Abukir. In una vasca d bagno d'oggi un vecchione è immerso, coriaceo come un rinoceronte; una Susanna rembrandtiana s'asciuga sull'orlo della vasca, altri due scimmieschi voyeurs sono appiattati nell'ombra. Una natura morta da Seicento olandese si combina con un "sacco" di Burri o un fornello a gas. Ritorna spesso la presenza d'una vecchia decrepita, la regina Elisabetta, Paolina Borghese che si è "fatta tanto in là" (chi ricorda la battuta di Antonio Baldini?) cogli anni, da raggiungere l'epoca della gomma piuma di cui è fatto il suo divano.

... e quella che potrebbe chiamarsi un'Accademia degli Smarriti (sottotitolo che darei allo Studio del pittore) diventa un cenacolo di distratti ascoltatori alla predica d'un predicatore invisibile dietro le nostre spalle che commenta il quadro con la figura del caduto seminudo (Caravaggio) giacente sul vessillo con la croce di Malta, e la teglia di arti mozzi, e la statuetta riversa sul violino in primo piano.

Visto da questa angolazione, anche a Tommasi Ferroni potrebbe applicarsi quella definizione che Melville dette dei ceroplaste delle Pesti, Gaetano Zumbo: "Un moralista". Il colore di questi quadri ha la pàtina della grande tradizione classica, ma è come il soave licor che asperge gli orli d'un vaso di Pandora, quasi come l'assisa rubensiana assunta da Antoine Wiertz per colportare scene di desolazione e d'orrore. Anche in certi raccostamenti d'acciaio di armature e di stoffe che simulano l'acciaio a tenere carni femminili traspare una vena di sensualità pervertita, come quella a cui fornivano esca certi quadri del Tiziano (Andromeda) e del Tintoretto (Liberazione di Arsinoe).

Ora i quadri di Tommasi Ferroni non narrano una storia, ma la storia, e van letti in chiave di quel passo di Shakespeare a cui accennavo sopra: un racconto "full of sound and fury, signifying nothing".

Mario Praz
"Riccardo Tommasi Ferroni lo studio del pittore - l'Accademia degli Smarriti - Studi e Particolari", Carte Segrete, Roma gennaio 1979



Nato nel secolo scorso, avrebbe dipinto come Francesco Hayez, come Giuseppe Sciuti, i grandi quadri di soggetto storico suggeriti dai romanzi, dalle novelle in versi, dai saggi che venivano fuori in quegli anni? E se nato nel seicento, avrebbe dipinto come Davide Teniers le grandi quadrerie o, come Jan Bruegel, il Bruegel dei velluti, le allegorie dei sensi coi quadri dentro il quadro e ogni particolare, ogni dettaglio, che fa quadro? Improponibili domande, ma fanno giuoco: per Tommasi Ferroni, per il suo giuoco che è peculiarmente parodistico, di una parodia che ha come oggetto il già fatto, la storia - la storia della pittura e tout court la storia - ma trascende nell'onirico, s'impenna nella surrealtà, ha angosciosi soprassalti e sfiora l'ossessione.

….Il sipario si è appena levato o sta per calare. Sta per calare, con ogni probabilità: poiché si ha il senso di una vicenda conclusa, di una storia consumata. Ed è forse non altro il significato di queste parodie, di queste pitture assunte in teatralità, di queste "citazioni" "<citazioni" propriamente pittoriche e anche letterarie): che tutto è stato già fatto e consumato, che ne restano le finzioni, le parvenze, le illusioni: e sul punto di dissolversi come le vesti e i corpi nelle tombe di Cerveteri appena aperte.

Leonardo Sciascia
Roma, febbraio 1981



La luce è sempre immota, quasi dorata nel contrasto di ombre, di corpi e di oggetti, lambisce tutto e permea di colore il fondale di scene abitate da personaggi a loro volta bloccati e fermi; l'aria che vi alita, o che pare alitare, è quella di sempre, di ieri come di oggi, la contemporaneìtà si amalgama nello spessore del tempo.
Cosí la visione è reale fino ad un certo punto. Riccardo Tommasi Ferroni infatti ci ha portato al di là di ogni certezza. Nulla è più codificato e codificabile anche quando la "scena" ha chiari riferimenti o rimandi, come Otello e Desdemona, in "Un bacio ancora". Uniti nell'estremo commiato hanno alle spalle il pittore nell'atto di raffigurarli, più indietro ancora tre personaggi, volgari e comuni, in posa caravaggesca siedono a tavola. Tre piani prospettici, tre piani di lettura, tre realtà in una, con un incalzare che spiazza e che contemporaneamente avvolge da esserne storditi.
Il suo viaggio, la sua "meditazione solitaria", per dirla ancora una volta con Mario Praz, continua nei meandri del manierismo e di una fantasticheria che trae linfa appunto da un museo immaginario per immergersi subito dopo nella raggelante acqua della quotidianità.

Una quiete di tutt'altra impronta è quella invece delle nature morte, dei pesci gettati alla rinfusa o accanto agli avanzi di un pasto, vicino a piatti sporchi. Esse sono una ulteriore tappa della "promenade" di Riccardo Tommasi Ferroni lungo le vie del Seicento e del Barocco. Si pensa subito a Giuseppe Recco, a quel suo recupero ed esaltazione della "meraviglia" nel reale, che questi corpi, lambiti da una luce che vibra tra le scaglie, posseggono in una materia pittorica, come sempre raffinata all'estremo.

Luigi Lambertini
"Il Giornale Nuovo", Milano 6 marzo 1981



... Ecco che della condizione di "attualità inattuale" (riporto una felice espressione di Franco Solmi a proposito della pittura di Riccardo Tommasi Ferroni) può sfuggire il significato di riesame del passato in funzione del presente, e dunque di modernità, a chi non sappia o non voglia considerare questa pittura - nelle desunzioni composite dal museo, insieme adoranti e irriverenti, o negli svaghi picareschi della fantasia nondimeno controllati - una pittura "di storia": nel senso che essa possiede il sentire storicamente, e in ragione di ciò accoglie la tradizione rinnovandola, e inserisce scopertamente le citazioni facendone elementi indispensabili dell'immagine, ed opera come pittura che nasce dalla pittura, che ne prolunga il secolare percorso iconico, e l'azione che le spetta nella vita della cultura, con la fiducia nelle finzioni e coi vaglio critico che le illusioni scevera riportandole in vita, sotto nuove spoglie, nell'atto medesimo in cui sembra volerle abbandonare o smentire.
Nelle maglie di un disegno meditato e sapiente si dilata la stesura luminosa del colore; e la bellezza (così paventata ai nostri giorni) non delle cose ma della narrazione condotta a periodi ampi e fluenti, con ricchezza di costruiti sintattici e di vocaboli, e con i fiori dell'eloquenza, "virtù propria dell'uomo", trionfa da un capo all'altro delle grandi tele, dove i personaggi e le nature morte (queste, talvolta, ancor più di quelli) hanno la funzione ora di rapprendere la luce in isole smaglianti, con la violenza del fotogramma, ora di lasciarla dilagare come un fiato in una serrata unità di vapori tiepoleschi.
La mitologia di cui trattano questi dipinti del Tommasi Ferroni è quella della pittura stessa, recuperata con i segni del suo tempo storico, che è anche il tempo di oggi, secondo un impegno di idee e di mestiere che volutamente e poeticamente combatte la predicazione accademica della morte della pittura.


Il pittore, restando nei confini del linguaggio dell'arte sua, ossia disegnando e dipingendo bene, direi che operi al modo degli scrittori e dei poeti. Né si capisce perché non dovrebbe essergli permesso ciò che a quelli è lecito da sempre.
Leggendo l'Aminta (che il Tommasi Ferroni non a caso ha illustrato con suprema eleganza interpretativa, nei modi di un neomanierismo rispettoso di un'idea della bellezza, musicale, sensitiva e adorna, che il pittore condivide) incontriamo subito, sia nell'invenzione dei personaggi e della loro storia, sia nella versificazione, gli infíniti debitì contratti dal Tasso, oltre che con le favole pastorali dell'epoca, con Teocrito, Virgilio, Tibullo, Properzio, Ovidio, e con l'Ameto del Boccaccio e il Corinto di Lorenzo de' Medici; e con Dante.

Fortunato Bellonzi
Maggio 1984



Certamente le immagini di Riccardo Tommasi Ferroni sono cosi prepotenti e inusitate con quel loro miscuglio di vetusto e di contemporaneo (persino le "celate" di ferro divengono "caschi" di plexiglas, e viceversa; e i "bleu-jeans" quasi indumenti senza tempo buoni a avviluppare le gambe d'un moderno capellone come quelle d'un antico personaggio della Bibbia), sembrerebbero far premio su ogni altro punto di quelle tele levigate, tornite, polimentate, come direbbero i marmorari. Eppure il fascino della pittura di Tommasi Ferroni sta più in occulto.
C'è in essa un "canto della sirena" che non si avverte subito di dove venga ma che quasi non fai a tempo ad averlo localizzato che già ti ha fatto diventare di pietra.
Una vera e propria calamita, uno specchio nel quale l'immagine del riguardante si ravvisa nelle singole figure, ma poi scompare smarrendosi nel labirinto della forma. Questo "canto della sirena" è la pittura stessa come Tommasi Ferroni la intende. Egli da tempo si è avventurato nelle sabbie mobili delle superfici della pittura seicentesca, la pittura di "valori", senza ombre e senza luci che non siano frutto della sovrapposizione di un tono su un altro, mediante l'uso della "velatura" e con il sistematico ausilio del bianco come "pedale" base di ogni variazione. Ho detto "sabbie mobili" perché Tommasi Ferroni è da questo modo (che può essere stato quello del Caravaggio giovane, come dei Saraceni o di Guido Reni) totalmente posseduto.
L'automatismo che il suo pennello ha raggiunto nel metterlo in pratica tanto più vibra di vita e di sottili invenzioni quanto più, come la voce nella recitazione dei grandi attori, ripete la medesima battuta nella consapevolezza di recare stupore ogni volta a un pubblico nuovo. Se si vuole, come nella prestidigitazione: si sa dove la mano andrà a parare e tuttavia l'emozione non farà cilecca. Siamo dunque in presenza di una originalissima impresa manieristica nella quale persino la scelta del "paesaggio", ancor prima di essere collocata dalla pittura in quel limbo di passato e presente di cui s'è detto, rivela di essere frutto di una ricerca disperata di luogi rimasti intatti attraverso i secoli e tuttavia sicuramente inquinati dal sacchetto di plastica, dalla buatta di coca-cola, dal puzzo degli scappamenti. E' così che Mosè viene "salvato dalle acque" nell'incavo stagnante dell'Anfiteatro di Sutri, tirato a riva da una ciambella di materia trasparente.

Antonello Trombadori
"Europeo", Milano 16 marzo 1981



... E' vero la parodia c'è: è un ingrediente standard nella costruzione dell'immagine, sempre. Due piani psicologici stanno assieme nel racconto: uno fatto dalla scena teatrale-cinematografica del giuoco - vedi il Moro di Venezia che abbraccia Desdemona distesa sul materasso piuma nello studio - e uno reale fatto dalle presenze del pittore e di alcuni amici che fanno quadro nel quadro con la loro seicentesca verità malinconica e gli oggetti imitati con molta bravura.
E su questi due piani - ritornano diversi nelle varianti di "Mosé salvato dalle acque" e in "Venere e Marte" - l'immagine già si incrina: la verità dei volti, che sono ritratti analitici molto penetranti e non pezzi di bravura, ritaglia nell'immagine, come un seme o un nocciolo, ciò che è schietto.


Credo bene che vengano fuori l'onirico, la surrealtà, gli angosciosi soprassalti, l'ossessione di cui dice Sciascia. Ma la causa vera è un'altra: Tommasi Ferroni fugge sempre dalla vita vera e il giuoco pittorico fa da maschera almeno fino a un certo punto.

Dario Micacchi
"L'Unità", Roma 19 marzo 1981



Ha la straordinaria capacità Tommasi Ferroni nonostante le mille occhiate e gli ambigui ammiccamenti di restar lui senza equivoco sempre padrone del grande gioco - e che altro è se non capacità creativa la portentosa eleganza del segno con cui inventa spazi e campi geometrici quasi predestinando per ciascuno di essi il rivestimento cromatico e il valore del tono? Ma la straordinaria capacità di "resonare", diceva Orazio, lo stile del modello e l'incapacità di ripeterlo, la sua facoltà assorbente onde tutto trasmuta, è soltanto un modo di essere e di esistere perché venga fuori lui e soltanto lui, con le sue stranezze, le sue ironie e diffidenze, i suoi diavoli cornuti e le sue pompe stupidamente lascive, e nascondere magari l'affetto ritroso per un verde che ha la lucentezza di uno smeraldo tra le rovine e le scale smozzicate di un anfiteatro dove lui si siede in trono come un arconte solitario che non ha da render conto a nessuno.

Ennio Francia
"L'Osservatore Romano", 6 giugno 1981



... inoltre, proprio in questi giorni, nella chiesa della "Messa degli Artisti", Santa Maria in Montesanto, a piazza del Popolo, è stata collocata (nella seconda cappella a destra) una pala d'altare la Cena di Emmaus, dipinta da Riccardo Tommasi Ferroni con uno sviscerato, confessatissimo amore per il Seicento, nondimeno percorso da umori narrativi, inquietudini, senso critico (manifesti anche nelle invenzioni iconologiche) che mettono l'opera al sicuro dal cedimento alla tentazione emulatrice o al recupero ambizioso. £ una sorta di grande ex-voto con tutte le carte in regola - dalla schietta religiosità al mestiere eccellente - per soddisfare le esigenze della Arte e quelle del Sacro, e per trovarsi in armonia con l'ambiente come continuazione (che non è ripetizione o prolungamento artificioso) del sentire storicamente la vicenda dell'uomo nella ricerca dell'immagine significante il divino. Ma si tratta di un esempio raro, ché i tempi mi paiono, quanto alla condizione sociale e culturale, dovunque sfavorevoli, anzi avversi non pure al Sacro nell'Arte, ma al Sacro, che ha per tabernacolo la pienezza della persona, la sua dignità e libertà.

Fortunato Belionzi
"Quale futuro per l'arte sacra", "Il Tempo", Roma 30 gennaio 1982



Saranno allora le finezze di questo moderno pittore di storia (proprio di quadri storici), condannato al presente del Museo Immaginario, a meravigliare - e magari ad irritare - i cultori meno sottili del postclassicismo corrente nei Licei e negli stanzoni ancora abbuiati delle nostre accademie, infiorate dal senile giovanilismo dei retori.

Sarà allora il suo provocante virtuosismo, quella fosforica tenebrosità che illumina il nostro tempo di crepuscoli non consumati, a meravigliare - e, ancora ad irritare - coloro che tentano l'ultima apologetica del presente, spostando i colori e gli spessori, il segno stesso di ciò che dicevamo pittura, con l'ottusa coloristica dei media e con la sciattezza pellicolare dell'immagine d'informazione. [... ] i dipinti di Riccardo Tommasi Ferroni sono appunto un ritornare su tracce di cui ognuno può scegliere il senso, ripescare il significato nella
propria storia di lettore d'immagini e di cultura, senza sentirsi troppo responsabile.

Franco Solmi
Introduzione alla mostra del "Nuovo Fanale", Genova 1984


Riccardo Tommasi Ferroni è un caso pittorico emblematico di come la cultura produca cultura e, se a questa si aggiungono le potenzialità espressive del linguaggio delle immagini, si ottengono i due elementi che da sempre contraddistinguono l'opera d'arte, ossia la qualità formale e il substrato poetico. La sua opera può bene rientrare nell'asse portante dell'avanguardia del secolo che si chiude, secolo che ha avuto molte identità, conseguenza dell'aver prodotto più cronaca che storia, più scene madri che drammi o tragedie. [... ] I parametri di giudizio che debbono soccorrere nell'analisi dell'opera di Tommasi Ferroni rientrano quindi nell'ampio diagramma della storia della forma e dei contenuti della pittura "strictu sensu". Molto si è scritto e molto si scriverà su questo artista e, inoltre, le analisi fatte sono approfondite, seducenti, illuminanti.

Maurizio Marini
Tommasi Ferroni, Grafis Edizioni, Bologna 1984



Tommasi Ferroni è anche, e soprattutto, un massimalista. Ai niinimalisti la parsimonia dei minimi interventi, il predominio del controllo intelligente sull'istinto ludico, la misura e il gusto e l'eleganza e il riserbo, la voce attenuata e il gesto discreto e il colore pacato; a lui l'eccesso, l'esagerazione, lo spreco, il "gaspillage" di troppa cultura e troppa tecnica e troppa citazionistica e troppi colori e troppe fluorescenze e troppi giochi. […] Questa è la nobiltà e la miseria di ogni azione massimalista [….]. Ma a me sembra che l'esuberanza e
La dismisura della pittura di Tommasi Ferroni siano riscattate dalla generosità con cui egli offre il ben di Dio della pittura in un gesto magnipictante.

Guido Almansi
Mi piace lo spudorato, in "Arte", gennaio 1986



La perplessità di Tommasi Ferroni si esprime nel suggerire quanto sia impossibile per l'esistenza lasciarsi sedurre del tutto dai filtri dell'arte. Un dubbio continuo, il confronto mai concluso con i grandi, un bisogno segreto d'emulazione che non sa smaltirsi; poi il senso della perfezione, del lavoro lento e non impressionistico: - la pittura, in Tommasi Ferroni, ha questa bellezza.

Enzo Siciliano
Introduzione alla mostra de "Il Gabbiano", Roma 1987



... possiamo aprire il capitolo relativo al realismo storico nel quale il posto di primo piano è occupato da Riccardo Tammasi Ferroni. La proposta di questo artista, nella natura morta come nella pittura di storia da lui rimessa, senza esitazione, in vigore, è propriamente anacronistico. Ma non nel senso attribuito a questa parola da alcuni rappresentanti delle nuove tendenze, perché andrà in ogni caso, e preliminarmente, ricordato che Tommasi Ferroni pratica questo genere di pittura da qualche decennio e che non ha mai neppure per un attimo pensato che vi fossero altre strade oltre a questa (restando imperterrito durante le più incrementi tempeste deu'avanguardia che fecero di lui anche un capro espiatorio). Il problema per Tommasi Ferroni è la competizione della pittura con la realtà, sul piano dell'immagine, e il confronto con la storia, sul piano della forma. Così il risultato deve essere tale da non lasciare nostalgia delle cose vedute, interamente trasferite, aspetto, umori e atmosfera nell'opera d'arte, nello stesso tempo da non far rimpiangere la qualità dei pittori antichi.

Vittorio Sgarbi
In Natura morta contemporanea, Milano 1988



Forse tutto questo è anche vero, ma l'artista aveva risposto subito alla núa sparata con una letterina, un po' ironica, in cui mi ricordava che proprio in quei giorni si stava "impantanando in paludine minimaliste: piccole nature morte con fiori appassiti, interni con pochi oggetti quotidiani scelti con intewgenza, addirittura paesaggini marini settembrini". Per scoprire questa vena in sordina di un pittore spesso clamoroso e indiscreto consiglierei il visitatore della mostra di osservare con attenzione un piccolo quadro dal titolo Cava di marmo abbandonata: uno studio sul grigio e sul bruno di sconcertante semplicità in cui la fatiscenza, il crollo, il declino, il disfacimento non è più dell'uomo o dei suoi prodotti, ma della terra stessa, o della montagna che "va a pezzi".

Guido Almansi
Introduzione alla mostra della "Tour Fromage", Aosta 1989



Forse è subentrata invece, in Tommasi Ferroni, come un'ombra di ulteriore malizia, di pacificata ironia. Trasparente soprattutto in quell'autoironico Apollo e Dafne del '90, in cui il pittore si sorprende, coi suo elegante panciotto, a studiare per l'ennesima volta il profilo accadenúco d'un piede di gesso, mentre tra le tende di casa s'impigha la corsa promiscua e spettinata delle due divinità in trasferta, ch'egli non potrà che arrestare, ancora una volta, altro che da importuno, sconfitto testimone.

Marco Vallora
In "Il Giornale", 8 febbraio 1991


All'antica vocazione per una pittura che accendesse del fuoco dell'idea l'amore per la tradizione, si aggiunge dunque l'immagine della Roma barocca. Una Roma sulla quale non grava "il fiato sciroccoso di certe notti a Fontana di Trevi" di cui scriveva libero De Libero ma un cielo attraversato da lampi sulfurei che illunúnano lo spazio di uno spettacolo nel quale è la poetica dei simboli a prevalere.

Vito Apuleo
In "Il Messaggero", Roma 20 febbraio 1992


Ogni opera di Tommasi Ferroni è una creazione poetica aperta a diverse letture: puoi lasciarti prendere dalla melodia immediata dei colori e delle forme, dalla loro incontaminata eleganza, o puoi cercare di decifrare il senso sottinteso non discorsivo e tuttavia significante dove si dispiegano le intuizioni della coscenza. Un sospetto di cerebralismo? Sono gli ingenui a credere che la poesia si faccia solo coi sentimenti.

Fausto Gianfranceschi
(In "Il Tempo", Roma 19 febbraio 1992


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