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RICCARDO TOMMASI FERRONI
Le piume del gran disio

di Guido Almansi


Quando penso a tutte le vane polemiche su avanguardia e retroguardia, sull'arte modernista e su quella postmodernista, sulla spinta verso il reale o sulla levitazione verso il surreale, spesso mi vengono in mente i miei artisti prediletti, e immediatamente mi rendo conto che il discorso teorico per il controllo e l'affermazíone di un'ideología, di un movimento, di un -ismo, di un impegno morale o estetico, conta ben poco. Persino la deontologia dell'artista - nel caso, per esempio, che il pittore viva soprattutto di prestiti e di plagi - diventa irrilevante di fronte al difficile e conturbante rapporto fra il quadro che tu ami o ammiri e il tuo sguardo che deve essere sempre perplesso, altrimenti il quadro non ti interessa veramente.
"Che vuoi da me?", è la prima domanda che io pongo ad un quadro che mi attira. E, a volte, se si tengono gli occhi sbarrati e le orecchie tese, il quadro ti risponde, o almeno ti sussurra una plausibile risposta: ti offro il fiume dell'oblio, uno specchio profondo e oscuro, un incubo pieno di cose sconosciute, un lago di sangue maledetto; oppure ti prometto lusso, calma e voluttà, la geometria del mondo, un piccolo segreto del gioco di luce, un messaggio che viene dal tuo profondo; ovvero ti dò una immagine della bellezza, prendere o lasciare. Ma ci sono altri quadri, magari amatissimi, che rifiutano arrogantemente, con sprezzo, di dare una risposta alla tua domanda. "Che vuoi da me?", e quello zitto. Oppure te ne dà due, di risposte, una contro l'altra: ti spinge in due direzioni opposte, lusingandoti alla vita o minacciandoti verso la morte, soddisfacendo il desiderio di bellezza e denunciandone la vanità, esaltando la tua vitalità o suggerendo la tua mortalità, fingendo la buona fede dell'impegno (morale, sociale, estetico) e ammiccando a una mala fede di secondo grado che si cela dietro la superficie. Qui l'espressione demotica coglie nel segno: sono quadri che "ti fanno rabbia", tanto sono belli e tanto sono crudeli, come "la belle dame sans merci". Un solo esempio: il quadro che forse amo di più, e di un amore totalmente non reciproco, credo sia Il cavaliere polacco di Rembrandt, alla Frick Collection a New York. Ogni volta che lo vedo, "mi fa una rabbia", con lo sguardo del cavaliere così stoicamente sicuro della propria profonda insicurezza, con quella promessa di vitalità nel volto, nella posizione eretta e baldanzosa del cavaliere che appoggia su una cavalcatura già figlie nell'immobilità della morte, con quelle livide sciabolate di gelo lungo i garretti del cavallo che attraversano spietatamente le distese dei bruni e dei grigi. Lo amo, quel quadro; e lo odio anche a un punto tale che vorrei sfregiarlo. I custodi della Frick Collection dovrebbero proibirmi l'accesso al museo.
Ma che vogliono da me i quadri di Tommasi Ferroni? Mi vogliono sbalordirne con l'eccellenza della loro esecuzione tecnica, o disgustare con gli accenni a un mondo fatiscente? Mi vogliono consolare con una visione composta e assorta in cui anche le facce patibolari di alcuni personaggi e i sacchi di spazzatura partecipano a una struttura del visibile, o mi vogliono scuotere fuori della sicurezza di un mondo organizzato (sia pure tra i rifiuti, i rottami, i relitti, le carneficine) e rendermi sensibile all'epifania, al momento magico, allo spot of time, "il punto nel tempo" di Wordsworth, in cui il cavallo degli scacchi cade di mano al giocatore nel magnifico Una partita a scacchi (una variante della Vocazione di San Matteo di Caravaggio), perché forse qualcuno ha bussato, quel momento è pregno di un avvenimento meraviglioso; e non si sa quale sia. Perché è così "volgare" nei suoi soggetti Tommasi-Ferroni, con i sacchi di spazzatura da cui emergono preziose mani berniniane, i gatti randagi che si aggirano nei luoghi illustri della Roma barocca, i rottami di automobili sfracellate contro architetture storiche (mi riferisco al suo quadro più bello, Metamorfosi barocca di una Lamborghini, del 1967, non presente alla mostra), le facce da beota o da energumeni o da imbecilli che partecipano alle festosità plebee (spesso solo una partita di calcio, o l'atroce pique-nique tra l'immondizia, un Dèjeuner sur l'herbe merdeuse, che è il Desinare al Gianicolo, il quadro più strepitoso e più ributtante della mostra). E' volgare perché è volgare, o è volgare perché vuole denunciare la volgarità del mondo? Lo attira lo sfacelo e la carne offesa (alla Francís Bacon, per intenderci), o gli piace giocare ironicamente su queste immagini di bruttura a cui il pittore riesce a sottrarre una ipotesi di bellezza e di gioia? E' un cattolico decadente che fotografa sogni, rivisita incubi, esuma fantasmi infantili con un gusto da negromante, o è un surrealista ironico e scanzonato che gioca sul macabro perché si presta al suo gusto per le associazioni incongrue (invece dell'ombrello e della macchina da cucire di lautréamontiana memoria, avremo l'ombrello e un bícchier d'acqua di Magritte; o Nettuno con attrezzatura di pescatore subacqueo, la testa di Santa Teresa del Bernini fra rifiuti ed escrementi, un astronauta a cavallo, una 500 Fiat accanto a una battaglia equestre, un cesto di frutta alla Caravaggio accanto a un sacco alla Burri: tutte queste ultime sono citazioni da quadri di Tommasi Ferroni).
I maggiori critici che si sono occupati di Tommasi Ferroni hanno avuto il loro da fare per trovargli una etichetta. A parte certe dichiarazioni sbalorditive, come quella di Manlio Cancogni che lo descrive come un pittore di suprema astrazione (come dire che Rubens era un pittore di modeste ambizioni, o che Tiziano mancava di tecnica), o di Leonardo Sciascia che lo vede come un Hayez in ritardo, gli altri critici l'hanno visto soprattutto come un pittore mortuario, alla Fuessli (l'accostamento è di Fortunato Bellonzi), o un esteta raffinato che prosegue la linea simbolica di quell'altra avanguardia che va da Blake a Moreau a Bócklin a de Chiríco. Il massimo saggio critico sull'artista rimane quello di Marío Praz che, come c'era da aspettarsi, punta tutto sulla chiave, a lui prediletta, del macabro. Secondo Praz, i personaggi delle tele di Tommasí Ferroni sembrano rigurgitati da un ossario; sono tragici e grotteschi, come le mummie della cripta della chiesa siciliana di Sàvoca; sembrano parodie ma sono in realtà Vanitas, meditazioni saturnine sulla morte e sulla decadenza.
In tutti i critici e i commentatori (compreso lo scrivente), rimane una incertezza se insistere sull'elemento surrealista e grottesco e inserire Tommasi Ferroni nell'arco di una più ampia avanguardia (insistendo appunto sulla parodia, chiave di lettura del nostro secolo); o accentuare l'elemento retroguardistico, archeologico, da cultore e riproduttore della grande pittura seicentesca che l'artista adatta - non senza stridori e forzature, di marca appunto surrealista - nell'ambito di una tematica contemporanea. Curiosa la posizione del compianto Luigi Carluccio, il quale lamentava che Tommasi Ferroní avesse rifiutato di "percorrere la metà di strada che lo separa dal moderno": dichiarazione che mi lascia allibito, perché è un invito a rinunciare a quello che è l'unicum del pittore, il suo precario equilibrio fra passato e presente, fra la citazionistica e la trasformistíca fra la maschera tragica e quella comica, fra l'orrore della boue e la nostalgia della boue, fra il culto religioso della morte e il culto blasfemo dell'irrisione. Tommasi Ferroni è Tommasi Ferroni proprio perché si è fermato a metà strada; ed in questo luogo di tutte le incertezze e di tutti gli sconforti egli combatte la sua battaglia da bravaccio un po' spavaldo (il suo volto da nobile spagnolo baffuto, riprodotto in molti suoi quadri sia pure intento a scrutare le sottili operazioni del pennello, vuole essere quello di un cavaliere senza paura) contro i grandi maestri del Seicento, a causa dei quali egli soffre la terribile malattia dell'artista, "the anxiety of influence" secondo la formula di Harold Bloom, e contro i segni degradati ma sempre misteriosi di un disfacimento in cui si nascondono i segni portanti della morte e dell'irrisione alla morte, proprio come nei quadri religiosi di tre secoli fa. O morte, vecchio capitano, forse non è tempo di salpare l'ancora, come voleva Baudelaire, ma di fare una partita a scacchi, o magari a morra, alla zecchinetta, alla passatella, in quelle tetre osterie romane dove soggiornano gli eroi sottoproletari di Tommasí Ferroní.
Questa mostra alla Tour Fromage di Aosta si accentra su due grandi quadri. Il primo è Desinare al Gianicolo, a cui abbiamo già accennato, dove si esaspera il contrasto fra una meravigliosa Roma barocca, tutta inventata ma esatta nell'occhio della mente come se fosse riprodotta in una fotografia, e i barbari accampati sui colli circostanti, con i loro musi spenti da animali assorti al ruminio o alla digestione, intenti a consumare una oscena porchetta. Di questa porchetta rimane solo la testa, vista di sguincio, una Vanitas di tipo particolare che invita non alla morte ma almeno all'astinenza dal cibo perché sufficiente di per sé a far interrompere per sempre il consumo di porchetta fra tutti i visitatori della mostra, tale e tanta è la sua cieca ed unta carnalità, mentre su un lurido foglio poggiano due orrende fettine già pronte per entrare in uno sfilatino da vagone ferroviario. Non c'è da temere un assalto alla civiltà da queste tribù selvagge perché troppo lente, torve, indolenti, stupide, indifferenti: semmai un contributo alla polluzione generale, in cui i barbari si trovano a loro agio, contenti e soddisfatti come mosche sulla merda; e di questa corruzione dell'uomo e della natura Tommasí Ferroni ci presenta una immagine amplificata, con montagne di immondizie, rifiuti, bottiglie vuote, resti bruciacchiati di cose che furono oggetti e ora sono solo sporco, escrementi, sacchi neri per il pattume. La compenetrazione figurativa fra i personaggi intenti alle gioie del pique-nique e dell'amore (si badi alle mani del personaggio sulla destra, agli orecchi e al taglio degli occhi del bestione con la sciarpa biancazzurra al centro) e il merdame tutt'intorno è perfetta. Si aspetta solo una ruspa gigantesca che porti via tutto quanto, relitti vegetali o minerali e umani, scatole di sigarette vuote lattine uomini donne cartacce bidoni mozziconi, via tutto insieme, e li scarichi in uno di quei grandi buchi, dipinti sul fondo, a cui corre l'occhio nelle Battaglie di Tommasi Ferroni (si veda appunto la Battaglia della cava, del 1986, qui alla mostra, o La battaglia del buco, del 1984, non esposta in questa occasione). Nelle scene di guerra di Tommasi Ferroni le teste tagliate, i cavalli sbudellati, le frattaglie umane ed equine, gli arti separati dai tronchi, i corpi trafitti dalle lance, le donne stuprate e uccise, hanno già una buca pronta ad accoglierli, preparata da strateghi di grande oculatezza logistica i quali sanno che la sola cosa indispensabile in una battaglia è, appunto, la fossa comune. Ma in Desinare al Gianicolo non ci sono fosse per questi detriti: non li scaricheranno mica nel centro di Roma?
Come deve essersi divertito il pittore, ad immaginare tutto questo, massacri e squallori e segnali di morte e forma di vita degradata (come gli orrendi amplessi, a destra e a sinistra, nel quadro sul Gíanicolo: come far l'amore in un cimitero; o peggio, perché i morti non recenti almeno hanno smesso di puzzare). Ma come deve essere angosciato e sbalordito il suo divertimento. Questo mi sembra vero anche per l'altro grande quadro, Prima del decollo, dove tutto sembra avvenire per doppia interposta persona. C'è una Angelica, che deve essere liberata dal mostro; e chi può liberarla se non l'artista, coscienziosamente colto al cavalletto in un arrogante autoritratto. Ma l'uomo in armatura che si accinge a partire è il figlio dell'artista (nella vita), e Ruggero (nella finzione del quadro), che sembra aver dimenticato sull'impiantito parti essenziali del suo equipaggiamento, ginocchiera bracciale ed elmo, ed è anche un po' distratto perché guarda dietro di sé, alle spalle, noi spettatori curiosi ed indiscreti. Certo non intende partire neanche lui, visto che ha delegato a un manichino in armatura l'incarico di salire in sella sul manichino ippogrifo, quello sì ansioso di decollare con le ali snelle e con le piume multicolori del gran desio. E quel teschio in basso al quadro che esce importuno da un nuovo cestino dei rifiuti, che ci sta a fare? A interrompere la festa, il volo, lo slancio della libertà? Ma non è anche il teschio con le sue occhiaie vuote che ci guarda di traverso? Il quadro è intenzionalmente ambiguo: ambiguo per lo spettatore, il quale è sospinto in direzioni diverse; e, credo, ambiguo, per il pittore stesso il quale, per sua e per nostra fortuna, non sa quello che fa. Ovvero sa che ci sono, intorno a lui e nascosti nel segreto vibrare del suo pennello, aspirazioni velleità sogni fantasmi gorgoglii di riso chimere ambizioni accostamenti incongrui ma eccitanti rancori disgusti passioni speranze groppi di angoscia, entro cui l'artista si aggira, forse incerto sul risultato e sul significato ma sicuro nelle scelte pittoriche, nell'itinerario da un segno all'altro, da un colore all'altro.
Una volta scrissi, forse un po' avventatamente, che Tommasi Ferroni è soprattutto un massimalista: "Ai minimalisti la parsimonia dei minimi interventi, il predominio del controllo intelligente sull'istinto ludico, la misura e il gusto e l'eleganza e il riserbo, la voce attenuata e il gesto discreto e il colore pacato; a lui l'eccesso, l'esagerazione, lo spreco, il gaspillage di troppa cultura e troppa tecnica e troppa citazionistica e troppi colori e troppe fluorescenze e troppi giochi". E dopo, nello stesso articolo: "Questa è la nobiltà e la miseria di ogni azione massimalista, dove la posta è sempre troppo alta, il rischio enorme, il consumo di energia a volte sproporzionato al soggetto. Ma a me sembra che l'esuberanza e la dismisura della pittura di Tommasi Ferroni siano riscattate dalla generosità con cui offre il ben di Dio della pittura in un gesto magnipictante". Forse tutto questo è anche vero, ma l'artista aveva risposto subito alla mia sparata con una letterina, un po' ironica, in cui mi ricordava che proprio in quei giorni si stava "impantanando in paludine minimaliste: piccole nature morte con fiori appassiti, interni con pochi oggetti quotidiani scelti con intelligenza, addirittura paesaggini marini settembrini". Per scoprire questa vena in sordina di un pittore spesso clamoroso e indiscreto consiglierei il visitatore della mostra di osservare con attenzione un piccolo quadro dal titolo Cava di marmo abbandonata: uno studio sul grigio e sul bruno di sconcertante semplicità in cui la fatiscenza, il crollo, il declino, il disfacimento non è più dell'uomo o dei suoi prodotti, ma della terra stessa, o della montagna che "va a pezzi".

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