articolo 2545

 

 
 
Il ‘68 tra contestazione e Utopia; una “crisi isterica” della Storia?
 











Bruno Pezzella, nel saggio-romanzo Un ragazzo del Sessantotto, Kairòs Edizioni, 2024, ci racconta sapientemente un tempo inquieto della nostra storia contemporanea: <<e insomma, pare che proprio la nostra sia stata una generazione felice, lo dicono le solite ricerche che ogni tanto scoprono verità opinabili. Abbiamo vissuto molto per strada, all’aperto. All’aperto abbiamo fatto tante cose; il concetto di spazio appartiene gelosamente al nostro tempo. Era la voglia di colmare distanze, di percorrere strade, di attraversare mari senza orizzonti. Perché il ’68 non fu solo manifestazioni, cortei e occupazioni; non solo amore libero e droghe.  Non fu, come si vuol far credere una “crisi isterica” della storia>>.
Adolfo Mollichelli, nella prefazione, scrive compendiando, in modo egregio, questo periodo storico: esso <<va inserito in un ampio contesto caratterizzato da rivolgimenti politici e sociali tra le pieghe di
un mondo in mutamento, identificabile nella rottura con il passato. La condanna di una società immobile figlia del benessere di una generazione che aveva vissuto gli orrori della seconda guerra mondiale [...] Noi, giovani del Sessantotto, eravamo inquieti, aspiravamo a qualcosa di più ed ascoltavamo: i Beatles, Bob Dylan, i Rolling Stones. [...] E noi immaginavamo. Soprattutto un mondo migliore, più aperto, un’umanità con meno padroni, un amore libero, non bigotto, lontano dagli anatemi ecclesiastici, fatti di divieti e di “non”, evocatori del peccato, di sensi di colpa… E allora i ragazzi di Prevert? Si manifestava il rifiuto di una vita normale, inconcepibile per i padri, ed ebbero inizio gli anni della contestazione, quel vento che soffiò sulle coste della California e che raggiunse l’Europa>>. Bruno Pezzella si interroga su che cosa sia rimasto di quegli anni, avendo egli stesso vissuto questa fiabesca avventura sessantottina, che ha tentato di cambiare il mondo e quali <<forme di lotta attuare contro lo sfruttamento sia delle persone sia dell’ecosistema>>. Questo racconto in diretta, di vita vissuta, è  <<una disquisizione dotta e approfondita su che cosa abbia rappresentato quel favoloso Sessantotto>>.
Maurizio Sibillio rileva acutamente: <<È la triste parabola dei rivoluzionari: la contestazione al sistema intesa come espediente per diventare parte integrante. Pasolini aveva capito tutto… […] Tra gli innumerevoli spunti interessanti della  disamina che Bruno Pezzella fa di quella stagione e di quegli eventi, c’è il concetto di ’68 come “anticonformismo e rivolta”, ma soprattutto parola. Anche se il mondo va avanti e le parole rischiano di diventare obsolete e non ci accorgiamo di parlare di niente, ce lo ricorda Giorgio Gaber in Destra e sinistra>>.
L’autore ci rivela la genesi di quest’ordito narrativo e di come da un particolare “morelliano”, di freudiana memoria, possa esser venuto alla luce,
dopo una lunga gestazione, la visionarietà creativa di questo testo: <<Era il tempo di Dylan e di John Baez, dei pittori del surrealismo e dello stupore del “genio di Praga”, Franz Kafka; delle pagine “politiche” di Calvino e Pasolini, della libertà appresa dai testi sacri di Marcuse, Gramsci, Sartre e Camus, di Chon Bendit e dei Nouveaux Philisophes; […] di tanti piccoli teatri underground, degli spettacoli di giovani compagnie che mettevano in scena testi dell’assurdo e della crudeltà. […] delle infinite repliche del Rinoceronte di Ionesco, della riscoperta di Raffaele Viviani; il tempo del Living Theatre di Julian Back e Judith Molina, di Leo De Berardinis e Carmelo Bene. […] Il Che, Mao, divinità del tempo, oggi sembrano fotografie seppiate. Tanti ci credevano nella “rivoluzione culturale”. Era la révolte; fu l’ultimo Movimento popolare o forse l’unico nella storia <<condiviso da un’intera generazione di studenti, operai, intellettuali, artisti che si erano messi in testa di cambiare il mondo>>.  Nel crogiuolo delle sequenze di questo percorso emozionale, di squisita fattura, Bruno Pezzella adopera un registro innovativo, mettendo insieme racconto, cronaca e filosofia e avendo come punti di riferimento la lezione di Philip Roth, Luciano Biancardi, Michele Serra ed Edoardo Nesi. Il tessuto narrativo è dinamicamente costruito su due piani, quello del ricordo in prima persona, secondo una testimonianza diretta, e quello del giudizio critico, per una valutazione complessiva di quel periodo storico, il cui contenuto di pensiero viene regressivamente trasformato e rielaborato in una “fantasia di desiderio”:  <<Era una rivolta etica che si portava dietro una propria visione ideale, che intendeva rompere gli argini di leggi e convenzioni imposte con la forza della società capitalista; che condannava l’individualismo, la supremazia di alcune categorie sociali su quelle meno forti (operai, neri, minoranze etniche, poveri,  emarginati) il sopravanzare della tecnologia, il materialismo e il consumismo sempre più diffusi come rappresentazioni esplicite e crude della nuova condizione umana>>.
In sede di valutazione critica, quello che c’è da notare, è che tutto risulta velleitario, non maturato da una “necessità effettuale”, ma improntato unicamente a quello spontaneismo vitalistico, su cui poggia la componente più solida della contestazione giovanile. La generazione beat, ad esempio, più che interessarsi di una logica strutturale, volse la sua attenzione all’esperienza immediata, volendo abbattere a tutti i costi, con il proprio empito ribelle ed alogico, una tradizione obsoleta. Un successo immediato, arrise al primo romanzo di Jack Kerouac, Sulla Strada: il nuovo decalogo della gioventù bruciata. È questo un libro di rottura, ed è facile reperire a monte di certe aspirazioni una dolorosa consapevolezza di un nullismo essenziale; questa ribellione aveva, in certi momenti, solamente un’immagine
esteriore con un proprio stile di vita: capelli lunghi, la magrezza contro tutto quello che rappresenta l’opulenza e il benessere, l’uso di droghe di origine vegetale e sintetiche, l’interesse per le religioni orientali, insomma un’opposizione integrale. C’è alla base di questo anelito un voler andare al di là delle stratificazioni e delle mistificazioni e cercare sempre e comunque le scaturigini di un mondo incorretto e genuino. Questa ribellione non è solamente una denuncia, ma anche una tensione continua verso una riesumazione di una realtà nuova, forse increata, esistente solamente allo stato noetico e non effettuale. Il registro critico ha un unico intento, quello di una vita non surrogata e compensatrice, ma sostanziata da una presa diretta con le cose. Questo romanzo di Kerouac ha esercitato sui giovani un fascino emozionale, unico, in quanto ha agito come momento di liberazione interiore. È un libro che doveva far operare delle scelte, proporre soluzioni, invece Kerouac, dopo quest’esperienza, non seppe fare altro che trincerarsi dietro una vaga forma di misticismo, appesantito dal suo momentaneo successo. La contestazione studentesca, nota finemente l’autore, fu inizialmente sottovalutata; il suo malessere sociale, invece, era profondo, l’essenza vera era controculturale e anticonformista, con un’operazione di dissenso verso le forme tradizionali dell’arte e della cultura, contro il consumismo di massa e il capitalismo. Fu “un’epoca di transito” o piuttosto “un’epoca asimmetrica”. Marcel Duchamp volle dimostrare come l’arte contemporanea si riverberasse  in un’estetica della caducità e del transcunte, per raggiungere nuovi canoni estetici e nuove forme di espressioni artistiche. Il Movimento mise in discussione tutti i capisaldi della società e travolse con la sua energia rigeneratrice un’intera generazione. Viene alla luce, da questo testo di Pezzella, un’immagine viva e coinvolgente di un’epoca nella sua radiale complessità; non c’è aspetto di quegli anni che non viene preso in considerazione; non viene trascurato proprio nulla, in questa miniera di notizie, utili per chi voglia attentamente studiare questo periodo storico, così fervido di fermenti ideologici e culturali. Un “fenomeno economico” che non si è più ripetuto, perchè la formulazione di un nuovo progetto di lavoro ha conosciuto un ristagno sclerotizzanete, ingannando così la nostra attesa, che è rimasta emotiva, ma non resa operante da concreti risultati. Questo universo elitario d’idee è andato incontro al proprio fallimento, perché si è avventurato in un sogno dorato senza domani. Questo fenomeno diffuso e trasversale di “opposizione integrale” sarà oggetto di studio e di ricerca, da parte dei sociologi, storici, filosofi e psicologi di massa; i personaggi “underground” rimangono visceralmente fuori dal mondo della tradizione, perché non sanno rinunciare ad un ordine che rimane latente nel loro labirinto psichico. Nella trilogia dell’avventura picara de I vagabondi del Dharma, Kerouac ci fa toccare con mano come la contestazione giovanile sia intinta anche di spiritualismo misticheggiante della filosofia zen; egli vive l’esperienza di questi anni di contestazione in una sorta di illusionismo tridimensionale, che non va oltre la cortina fumogena del sogno e della speranza. Non mancano costanti auspici per una società cosmopolita, richiami alla filosofia buddista, alla rivoluzione sessuale di Reich e al libero uso di droghe. L’evasione di questi “paradisi psicologici annulla lo spazio e il tempo reale, per costruire degli spazi surreali e dei tempi psicologici, che sfuggono a qualsiasi controllo cosciente. In Italia, illuminanti sono stati i romanzi di William Burroghs, di Allen Ginsberg, di Steinbech, di E.Hemingway con Per chi suona la campana e Al di là del fiume e tra gli alberi. A sprovincializzare la nostra cultura provvide Fernanda Pivano con la diffusione della letteratura americana. Nella memoria collettiva è rimasto vivo come segno indelebile il Maggio francese; ad iniziare la rivolta furono proprio gli universitari di Nanterre. Le canzoni “impegnate” di quegli anni erano dei cantautori, Guccini, Tenco, De André. Una caratteristica evidente  del Movimento registrò la contrapposizione giovanile in modo frontale ad una classe politica, arroccata  nei propri consolidati interessi e sostenuta dalle organizzazioni dei partiti e dei sindacati. L’opposizione era totale  a tutto un sistema un sistema politico e sociale. Un romanzo di successo di quel periodo fu quello di Carlo Levi: Cristo si è fermato a Eboli. Levi così scrive: <<Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né le speranze, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo>>.
L’arte, la democrazia, la vita, niente sarà come prima e nulla sarà mai una conquista sicura. Nanni Balestrini,
sulle poesie visive, così scrive: <<Sì alla violenza operaia contro lo sfruttamento>>. In un numero di marzo ’73 di “Re Nudo”, si legge: <<La morale borghese ci insegna che la felicità non esiste. Il comunismo, non scordiamocelo, vuol dire anche felicità. E se per arrivarci dovremo essere cattivi, cioè assassinare i nostri nemici, non dimentichiamo che loro da 2000 anni ogni giorno ammazzano la gioia di esistere>>. Kerouac è il capostipite di questa generazione; egli incominciava, però, ad essere un eroe emblematico di un destino profetico, quasi sulla scia del declino. L’eversiva protesta e la tanto desiderata palingenesi si perderanno nella tenue luce della memoria storica. Il disinganno di questi angeli, decaduti dalla loro dorata galassia, conserva, ancora, nei meandri dell’inconscio, qualche speranza in via di estinzione. Il beat nasce con il blasone di beato ed infaustamente si ritira in sordina con la cocente delusione del “vinto”, perché, strada facendo, si è dissolto il suo organismo ribellistico e ha dichiarato la sua resa incondizionata. Il suo genuino ribellismo si è istituzionalizzato in un vuoto stereotipo senza senso e senza possibilità di un ricambio vivificatore. La parabola discendente di questa rivolta sa di furore eroico, da personaggio eschileo, impotente ed indifeso dinanzi all’ineluttabilità del destino. Il ripiegamento progressivo verso un’ipertrofia individualistica ha eluso qualsiasi “impegno” socio-culturale. Carmelo Bene, in modo lapidario, chiosa eminentemente sull’ “Europeo”, il ’68: <<Se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare se stessi, andare contro se stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l’auto-contestazione>>. Nonostante tutto, questo Movimento fu un fenomeno di pensiero, di cui non si possono ignorare  gli sviluppi ulteriori verso la fine degli anni ’70. Fu una rivoluzione della conoscenza e della “verità”, secondo Foucault. Il dissenso di questo Movimento è andato a vuoto, perché sprovvisto di una forza autenticamente trasformatrice per una riedizione di un mondo diverso e nuovo. Il primo segnale di declino è dato, poi dalla successione della fase beat a quella hippie. È proprio nel ’68 che vengono poste le basi ideologiche del femminismo e dell’inclusione  sociale degli omosessuali. La libertà dei costumi sessuali fu vista come superamento di una visione bigotta; nella metà degli anni ’70, ricordiamo il romanzo di formazione di Linda Ravera e Marco Lombardi Radice, proci con le ali. Si leggeva Prévert: <<Questo amore/ così violento/ Così fragile>>… Poeta animato da fecondi echi surrealisti con il suo facile e acuto lirismo sentimentale, attirò l’attenzione dei giovani contestatori. Anarchico fino all’ingiuria e, in pieno stile sessantottino, fu contro l’arroganza del potere e le sue leggi, i circuiti del conformismo  e i comportamenti seriali, destabilizzando canoni e sistemi di produzione e comunicazione. “Il principio di diversità” si fa strada, mettendo in discussione l’idea di normalità, che non esiste in natura in quanto sovrastruttura sociale preconfezionata ed imposta. È più che legittimo parlare anche agevolmente di “senso etico” del Sessantotto: eticità per il suo significato altamente morale e per l’azione e per il modo di pensare.
Questo cambio di guardia avviene con nuove proposte di “impegno”, più che all’insegna del solo rigorismo dialettico come “trasfert di fede”, da rivolta ideale e comunismo libertario a indottrimento di teorie maoiste e vetero-marxiste che ne provocheranno la caduta libera negli anni successivi . La generazione beat ha dimenticato il ruolo dell’operatore culturale, rivelando la sostanziale inutilità della <<fuga dal reale>>. Una nuova strategia sottentra al disimpegno e al lassismo abbandonico, ripiegando su posizioni di militanza socio-culturale. Ad esempio, l’opera di Kerouac subisce per di più una progressiva
devitalizzazione da parte del perbenismo borghese. Il mediocre fascino di questo sistema è nell’aver saputo inglobare nel proprio circuito mercificante lo spontaneismo beat. È riuscito ad arroccare su posizioni consumistiche e plastificanti una genuina aspirazione di dissidenza e di rivolta essenziale. Questa morbida fase di “sfruttamento” ha scarnificato l’apparente solidità del Movimento, facendone un prodotto del sistema,  che alla fine ha tutto convogliato nell’universo delle sue contraddizioni. <<Una rivoluzione tanto creativa>>, rileva acutamente Bruno Pezzella, <<non si ripeterà mai più nella storia>>: <<tempo reale e tempo della mente, tempo metafisico e tempo filosofico, tempo della provvisorietà e del transito>>. Era un sogno impossibile, come avrebbero dimostrato gli anni successivi: <<C’era nell’aria una specie di fluido fascinoso. Si era coinvolti anche se non si partecipava direttamente.  È una sensazione difficile da spiegare: un inconscio collettivo, un sentimento misto di paura per il rischio e curiosità per quello che sarebbe potuto succedere. Una sensazione di comune esaltazione e fascinazione che portava la mente a immaginare un futuro dove la giustizia e l’uguaglianza sarebbero stati una regola>>. Fu anche il tempo della libertà sessuale del “Je t’aime – Moi non plus”, del Tango a Parigi e di W.Reich con i suoi “orgoni”, per liberare l’energia sessuale inibita; in linea con il pensiero freudiano si riconosce il ruolo predominante della sessualità, nell’eziologia delle nevrosi. L’acculturazione al consumismo e la conformazione a tale modello saranno le spie del decadimento umano e morale; scrive profeticamente Pasolini: <<La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più regressivo totalitarismo che si sia mai visto>>. Facendo un consuntivo di questo periodo, esso, oltre a dare un apporto determinante al folk, si pensi a bob Dylan, segna un solco preciso nel <<new cinema>>, lasciando un retaggio cospicuo all’epigonismo <<hippie>>. Alcuni proficui risultati vanno ricercati, anche, in sede di analisi sociologica, avendo contribuito a mettere in luce alcuni aspetti storici del costume e della pubblicità. L’autore beat è senza ombra di dubbio  l’ispiratore della <<nouvelle vague>> e dell’avanguardia degli “youth films”. Questo movimento è un segno di contraddizione; è il termine di mezzo di una cultura di passaggio, perché porterà in sé stesso tutte le caratteristiche di una generazione itinerante, come rilevai in “Critica letteraria”, n.12, 1976, pp.611-613, recensendo un’intervista monografica su Kerouac di Antonio Filippetti. Con la fine degli anni ’60, negli anni ’70, ha inizio la parabola discendente del “pensiero critico” e la lenta agonia delle ideologie “strutturate e complesse”, che, <<pur nelle veementi contrapposizioni, avevano contraddistinto tutto il secolo scorso e l’ultima parte del diciannovesimo secolo>>. L’assassinio di Pasolini chiude un’epoca, di quegli anni elettrizzanti della contestazione e la fine del “secolo speciale”. Fu una voce fuori dal coro, diversa, anticonformista, alla ricerca continua di una verità, in politica come nell’arte, nei rapporti umani come nei linguaggi quotidiani. A partire da questa “diversità”, Pasolini teorizzò un suo ruolo di totale disomogeneità rispetto ai valori borghesi della società italiana; aveva cercato di coniugare marxismo e spiritualità cristiana, nostalgia dei valori del mondo rurale precapitalistico e denuncia della violenza, implicita o esplicita delle strutture sociali dell’Occidente industrializzato. Demistificò, con  un intelligente stile di provocazione, le ideologie e i comportamenti, inglobati da una tentacolare cultura neocapitalistica. Siamo sulla scia del nonsense, del demenziale e dell’insana goduria. L’attenzione di tutti si sposta sull’inutile, che può illudere di raggiungere la felicità a tutti i costi. Il sesso, la seduzione mercificata, il divertimento, il piacere e il vuoto esistenziale come ideale e stile di vita. È il  post-moderno nell’architettura, la transavanguardia nella pittura, “il pensiero debole” in filosofia, Ardigò si inventerà il “post-post moderno”. Il ’68 fu senz’altro una categoria dello spirito, di un’anima ribelle e indocile, ma genuina e spontanea, nata da un impulso vitale di umano efficientismo, a fronte dell’accettazione dell’età dello squilibrio. Come dimensione rassicurante e come unica possibile via d’uscita viene alla luce l’età dell’adesso, di quest’epoca dello “straniamento esistenziale”, narcotizzante e omogeneizzata e del tutto “relativo”. È l’inizio di un vero capovolgimento e del percorso cognitivo e del sistema logico, quello che ci ha portato all’intelligenza artificiale, all’alta tecnologia dei robot, dei computer, che hanno messo in crisi profonda l’interazione tra il metafisico e il pensiero logico, travolgendo l’ultima generazione “riflessiva” del Novecento.
È ormai nel nostro rimosso l’idea ribelle, il pensiero difforme e l’azione libertaria del tanto decantato ’68! Fu una “rivoluzione di pensiero e di costumi”, ma il “liberismo rampante” degli anni ’80 cominciava ad ottundere tutti i nobili ideali del Movimento, di quella <<visione istintiva destinata ad appannarsi nel giro di un decennio>>. Era tutto ciò inevitabile, dal momento che <<tutta le rivoluzioni, le ribellioni, i mutamenti radicali degli equilibri politici o sociali>>, chiosa egregiamente Bruno Pezzella, <<nascondono un secondo fine prosaico, che in maniera più o meno manifesta porta al denaro, alla ricchezza al potere>>. È una diagnosi inquietante che ci fa rimpiangere le idealità di quel tempo inquieto, ma
esaltante.
A.Robbe – Grillet, eliminando ogni categoria psicologica o filosofica di tempo e di spazio, attraverso un suo scenario onirico, ha colto bene la tensione conflittuale, a livello psicologico dell’uomo di quegli anni, in una posizione incerta e passiva, di fronte alla reificazione dell’universo. Gli oggetti sono entità a sé stanti, spodestano l’uomo dal ruolo di protagonista e lo assimilano alla sua oggettività, come puro sogno “materico” (Les Gommes, Le Vojeur, Dans le labyrinthe, l’Année dernière à Marienbad). Il prodotto creativo è il risultato di una resistenza opposta dalle cose, <<da questo superamento nasce una realtà “autre”, con la quale l’uomo non riesce a dialettizzare>>, così scrivevo in “Critica letteraria”, n.13, 1976, pp.804-807. Non esiste nel diorama narrativo e visivo di Robbe-Grillet un discorso organico e “naturale”, di stampo balzachiano, fatto di valori morali e politici, ma mere entificazioni di una realtà degradata e assente.  La
cosifizzazione, come stato  permanente, non riesce a trascinare il lettore o lo spettatore in un “altrove” funzionale o sostanziale. Robbe- Grillet profeticamente interpreta a menadito gli sviluppi teoretici e sociali del ’68. Il suo personaggio, inteso come feticcio, è ridotto a semplice scheda anagrafica; con lo scrittore-regista francese si assiste all’ultimo atto della sua dissoluzione e ad un senso profondo di disperazione e di angoscia esistenziale. La struttura del “nouveau roman” evidenzia un’ispirazione a sfondo poliziesco, che si snoda in avvenimenti paradossali o assurdi. La disumanizzazione dell’arte è il prodomo della filosofia autodistruttiva della Beatnik Generation; il suo ribellismo “provvisorio” non può essere giudicato in modo manicheo o con definizioni totalizzanti, data la complessità interna del Movimento. La sua parabola oscilla tra la non-violenza e la violenza estrema, tra idealità e materialismo , vittorie e sconfitte, eroismi e tradimenti, scrive acutamente Bruno Pezzella. Fu una vera rivoluzione? Ernst Bloch è del parere che a questa “rivoluzione” i “giovani ribelli stavano dando un contributo importante” ed è indubbio “l’alto contenuto morale” della protesta, ricorda Arendt, e la gioiosa “determinazione ad agire” con la tenace volontà  di cambiare il mondo. È stato un evento simbolico della crisi di una civiltà, in cui sono affiorate aspirazioni legittime, che si sono rovesciate nel loro opposto, nell’arco di un decennio e in una visione ciclica di trasformazione profonda. Si trattò di un fenomeno esistenziale, dinamico, ma transeunte. Il nucleo narrativo di Les Gommes  di Robbe-Grillet è proprio qui: una necessità meccanica lega gli uomini e le cose in un automatismo sterile ed ossessivo in un’appercezione così fortemente radicalizzata da sembrare la nota esclusiva e dominante di ogni tensione  comunicativa. Il tessuto di questo romanzo si riduce a un “monologo esteriore”, che  ci sfugge sempre, dandoci un senso inconoscibile di ogni cosa.  Tutta la produzione del narratore-regista francese compendia metaforicamente e, in modo egregio,  la temperia storica e letteraria del ’68. Dietro questa realtà cosifizzata un’obiettività inutile assume un valore parodico con una passività cosmica terrificante e visionaria. Il  furore iconoclasta, contro la nozione del personaggio letterario di quegli anni, è distruttivo e nasconde in sé una segreta ossessione per una realtà sconnessa ed irrelata, nel segno di un delirio creativo. Con l’Anneé derniére à Marienbad, i personaggi sono completamente svuotati, sono in realtà ciò che si vedono di essere: semplici manichini, senza una dimensione temporale, coagulata allo stato puramente mentale. La letteratura oggettiva e cosista esce allo scoperto, il suo potere di astanza ci propone anche una cinematografia non come mezzo di espressione, ma di ricerca. Il criterio della verosimiglianza ad un determinato stereotipo non può fare da discriminante, proponendoci un tipo di letteratura in cui l’allucinazione, l’aleatorio e l’immaginario sono i temi privilegiati. La metafora ossessiva fa leggere la scrittura di Robbe-Grillet in una dimensione inumana e innaturale,  preannunciando i congegni  letterari del néant e alcune riflessioni sulla verità, vista in superficie e non in profondità, come merita di essere esplorata, escludendo qualsiasi simbolismo o segreto recondito. È una traslazione di senso per contiguità, disponendo nello spazio metonimico la descrizione di ogni fermento storico. È questa la strategia tipica di Alain Robbe-Grillet; ogni fenomeno è visto in movimento in un incessante divenire, che, nella sua specularità, suggerisce alterazioni profonde, ossessioni concentriche. È un labirinto senza un varco affidabile,  un processo storico che non propone nulla di transitivo con chiari procedimenti intellegibili, ma oscuri segni che meritano ancora di essere decodificati o da decrittare.
Tutta
la vicenda del ’68 sembra una scommessa ridotta a un gioco inverosimile, dove tutto ha un doppio  significato. Questo Movimento, inteso come una vera metafora strutturale, ha propiziato ogni tipo di empatia o di pensiero emozionale, il cui “impegno” è stato assorbito, talvolta, da un grande happening o da uno psicodramma, fatto di ruoli passivi o ineffettuali; essi sono articolati attorno a scenari fissi con sequenze in movimento L’appello alla memoria non esiste, il mondo è senza passato né avvenire, completamente autonomo e  autosufficiente, nel segno di un presente continuo del nudo esserci. Alla <<best generation>> non resta altro che la consolazione della propria vicenda, un documento ribelle di una passeggiera meteora. A Bruno Pezzella va, però, il merito di aver tracciato in modo illuminante, le coordinate di questo Movimento, nella sua radialità essenziale, con una ricchezza straordinaria di trasversalità, in cui racconto, storia e autobiografia, coinvolgono chi legge, in una lettura interessante e piacevole.
Carlo Di Lieto

Bruno Pezzella,
Un ragazzo del Sessantotto,
Kairos Edizioni,. euro 18,00




2025-01-31