|
Tra le tante attività che si avvicendano nel corso dell’anno ve n’è una che non conosce cadenze stagionali nel senso che è attiva per tutti i 365 giorni ed è quella dei premi letterari (ma non solo) che vengono elargiti e assegnati a ritmo pressoché continuo, senza sosta. Il mese di ottobre è quello per così dire più canonico ma anche agognato poiché vengono conferiti i riconoscimenti Nobel. E naturalmente anche questa volta il rito si è puntualmente ripetuto. Debbo confessare in premessa che sono da sempre contrario ai premi poiché li ritengo inutili oltre che dannosi. Il motivo di tale contrarietà è semplice. Il riconoscimento alimenta più che altro un pericoloso narcisismo nel senso che il premiato s’illude di essere entrato, grazie al riconoscimento avuto, in una specie di élite del pensiero, dell’arte, della cultura, ecc., il che induce il personaggio in questione, ingannando anche se stesso, a continuare nella sua opera alimentano un circolo vizioso senza posa. Difatti si darà da fare con l’obiettivo di meritare sempre nuovi allori. In seconda istanza i premi alimentano, com’è noto, una situazione di scambio, un do ut des, nel senso che premiati e premiatori si alternano continuamente nei ruoli in una farsa da teatrino di quartiere. O piuttosto come quando al circo due clown si scambiano finte martellate sulla testa. Ma non si tratta soltanto di queste amene ingenuità. Chi gestisce quel poco o tanto che resta dell’attività editoriale si adopera per la propria scuderia, anche qui seguendo ovviamente il gioco delle parti, e poiché lo show must go on si assegnano riconoscimenti anche quando manca la materia prima (il che avviene sempre più spesso essendo tutti, chi più chi meno, schiavi della velocità produttiva imposta dai social on line). E veniamo al Nobel. Il premio dell’Accademia svedese è da sempre un misto (ovvero un pastrocchio) di equilibrismo geo-politico che segue il vento del momento e non le vere ragioni per cui fu creato. La prova più eloquente si ottiene scorrendo l’albo d’oro dei vincitori. E’ tutto in ossequio agli “umori” del momento insieme, si direbbe, con una spocchiosa buona dose di ignoranza. Del resto non si spiegherebbero diversamente le “straordinarie” assenze in quell’albo prima ricordato. In effetti, mancano all’appello tutti i più grandi scrittori del Novecento: Proust, Joyce, Musil, Kafka, Borges cui si è aggiunto più recentemente anche Philip Roth (ma anche uno come Leone Tolstoj avrebbe fatto in tempo a conseguire l’ambito riconoscimento essendo morto nel 1910 quando il premio era già alla decima edizione). In una disamina seria verrebbe da chiedersi cosa abbiano mai letto (e inteso) i giudici del Nobel. A riprova della confusione con cui l’Accademia ha sempre operato può accadere anche che una nostra autrice, Grazia Deledda, ottenga l’ambito riconoscimento a discapito di altro scrittore designato come Roberto Bracco cancellato dall’elenco in quanto grande oppositore del “regime” (siamo nel 1926). E l’autrice di Canne al vento segnò per di più anche il record, rimasto finora imbattuto, di essere la sola italiana donna ad avere ottenuto il premio (oltre ad essere la seconda donna in assoluto dalla costituzione del Nobel). E a proposito di scrittura al femminile non è secondario il fatto che la maggior parte dei riconoscimenti sia andata al genere maschile quasi come se le donne non sapessero scrivere, salvo poi che negli ultimi venti o trent’anni, sotto la spinta del femminismo dilagante, ogni tre o quattro anni l’alloro viene conferito ad una donna. E in quest’ ambito non è mancato nemmeno lo scandalo legato alle problematiche diremmo del movimento MeToo. Per definire il Nobel basterebbe poi andarsi a rileggere le considerazioni rabbiose di Giuseppe Ungaretti quando apprese che il riconoscimento nel 1959 era stato attribuito al suo “avversario” Salvatore Quasimodo. C’è poi da segnalare lo sconcerto che suscita spesso l’attribuzione del premio, vale a dire il fatto che ci si trova davanti a “perfetti sconosciuti” anche per un pubblico qualificato e non di rado, come nell’ultimo caso riguardante lo scrittore africano Abdulrazak Gurnah , anche gli addetti ai lavori hanno dovuto faticare non poco per scovare le qualità letterarie del Carneade di turno. Ma probabilmente l’amarezza di fondo consiste nel pensare a come si potrebbero utilizzare i fondi del premio. Quanto sarebbe proficuo utilizzare ad esempio il milione di euro del premio stesso per iniziative a favore della promozione della lettura, per poter cioè allargare il mercato degli utenti, prevedendo semmai delle borse di studio per ricerche e approfondimenti su temi e argomenti inerenti la creatività artistica e letteraria. Tante altre iniziative potrebbero essere realizzate con i fondi dell’Accademia, con il vantaggio se non altro di evitare ogni anno la recita circense che suscita non tanto allegria ma più che altro delusione e compassione. Antonio Filippetti |
2021-11-01
|