articolo 2187

 

 
 
ARTISTI CONTRO
Ricerca e sperimentazione a Napoli nel Dopoguerra e oltre
 







Antonio Paladino




Guido Biasi
ST.1958

1.Il MAC e l’immanenza delle forme         

Quando si riflette sulla storia dell’arte a Napoli nel secondo Novecento si pensa quasi sempre ad un contesto marginale in cui i fenomeni artistici vivono di luce riflessa rispetto ai grandi centri propulsori dell’arte italiana come Milano o Roma, dove peraltro molti movimenti sembrano a loro volta il riflesso dei grandi eventi artistici internazionali. Eppure a Napoli, soprattutto a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, si sviluppano un fermento artistico e un dibattito estetico-culturale che presentano i segni inconfondibili di una grande originalità e di un notevole spessore. Antonio Del Guercio notava come “le aggregazioni napoletane del dopoguerra risultano come momento rilevante di vicende artistiche che si proiettano decisamente entro il contesto nazionale ed internazionale”. Dopo una fase storica di gestazione che passa per esperienze di moderato rinnovamento, come quella del Gruppo Sud, o di adeguamento ai modelli internazionali di riferimento dell’arte del ‘900 (dal filone astratto-naturalista, all’Espressionismo, al Cubismo), il primo atto di un consapevole rinnovamento dell’arte napoletana è rappresentato senza dubbio dalla nascita del MAC napoletano nei primi anni ’50, che vede protagonisti Barisani, De Fusco, Tatafiore, Venditti, cui si affiancano per un periodo Giordano e Bizanzio, e che trova anche una sua formulazione teorica nella dichiarazione-manifesto redatta da De Fusco “Perché Arte concreta”. La contrapposizione intenzionale all’astrattismo classico e quindi l’abbandono della definizione, sempre più problematica, di “arte astratta” a favore di “arte concreta” si carica di significato soprattutto in rapporto allo statuto e alla funzione dell’arte e dell’artista stesso. In realtà l’espressione Arte Concreta nasce già nel 1930 dal pensiero lungimirante di un precursore come Van Doesburg e va a sottolineare in maniera pregnante un dualismo presente fin dalle origini nell’ambito dell’Astrattismo. Il progetto estetico descritto da Kandinsky nel testo “Lo spirituale nell’arte”, con la sua progressione attraverso il percorso Impressione, Improvvisazione, Composizione, delineava già con categorie ben definite i possibili poli dell’arte astratta: una pittura prima mimetica, poi intuitiva, infine razionale. Nella sua opera tuttavia sembra evidente che l’improvvisazione e la composizione conservino ancora dei valori di natura espressiva in grado di dare voce in forme estetiche astratte alla “natura interiore”. Progressivamente l’arte rivendica l’autonomia estetica della forma sia rispetto alla percezione sensibile sia rispetto alla sensazione interiore.
Renato Barisani
Verde Segnato. 1992
Mondrian, nella ricerca della sua “realtà pura” e di un assoluto che è “forma della bellezza astratta”, pone in maniera più netta il tema della trascendenza dell’arte rispetto alla natura, al soggetto e alla percezione. Nondimeno nella sua teoria la funzione di referenza linguistica della pittura non si dissolve, ma anzi si sposta Guido Biasi ST.1958 dal mondo sensibile alla creazione plastica di una realtà pura, attingibile solo attraverso la radicale analisi elementare dei componenti della pittura e la loro riduzione quindi a piani ortogonali e colori o non-colori primari. Ancora più vicina allo spirito di totale autonomia estetica che ispira il MAC è forse la visione di Malevic con la sua pittura “fine a se stessa” e il suo “mondo della non rappresentazione”. Trova qui comunque le sue radici l’arte concreta europea, che peraltro aveva conosciuto anche un’espressione significativa nella Konkrete Kunst di Max Bill, e la nascita del MAC in Italia nel ’48 si iscrive pienamente nei presupposti del concretismo internazionale, benché ne enfatizzi gli aspetti razionalisti e costruttivisti. Affrancatasi definitivamente dal presupposto di tradurre in forme estetiche i dati sensibili, l’arte concreta intende creare nuove forme sensibili, che siano funzionali anche al rapporto dell’individuo con la realtà, alla costruzione di una relazione opportuna del soggetto con il mondo fenomenico. L’esperienza del MAC napoletano, che trova peraltro fin dagli esordi percorsi originali rispetto al movimento nazionale, è quella di un gruppo di sperimentatori della Forma e, come rileva la dichiarazione-manifesto redatta da De Fusco, punta ad un linguaggio capace di “mutare il rappresentare in formare”. Il concretismo napoletano inoltre rivendica una presa sul reale e sulle percezioni vissute, persino sulla vita sociale, aspirazione che resterà in seguito un riferimento costante nella ricerca artistica partenopea. “Formare è un impegno morale di partecipazione alla realtà, esprime la coscienza di essere nella realtà, è agire”. L’autonomia della forma quindi, lungi dall’essere l’espressione di un estetismo fine a se stesso, rientra in una progettualità di tipo funzionalista. Argan individua bene questo rapporto tra estetica e strutture percettive in chiave funzionalista nelle ricerche del MAC. Per il critico quelle opere “sono principi di visioni la cui validità non è verificabile in re, ma nel contributo che recano ad una più lucida e costruttiva percezione del reale”. Inoltre sottolinea l’assenza di slittamenti metafisici poiché l’arte concreta “non è un processo di trascendenza ma di immanenza ed il suo obiettivo non è un formalismo raffinato, ma la determinazione di una condizione fondamentale per l’esperienza piena ed immediata del reale”. Ne consegue che il critico ascriva al movimento la rivendicazione di una funzione etico-didattica poiché il linguaggio artistico interagisce con l’educazione percettiva: “Nell’arte concreta è pertanto riconoscibile un intento
Mario Persico
1961
didattico, nel senso di una educazione diretta della percettività. Un saggio di Luigi Paolo Finizio ripercorre con una puntuale analisi la storia del Mac napoletano e i diversi orientamenti nella ricerca estetica e stilistica dei suoi protagonisti. Tuttavia quello che ci sembra il tessuto connettivo e l’elemento unificante dell’esperienza, anche rispetto ad altre esperienze concretiste precedenti o coeve, è la natura e la funzione del segno nel suo rapporto con lo spazio. Il segno sembra muovere da un impulso all’esplorazione analitica dello spazio sia in senso statico sia in senso dinamico. Il linguaggio estetico non nasce da un’intuizione sintetica proiettata sulla superficie della tela, come nelle geniali illuminazioni di Malevic, ma sembra prodursi in un lento divenire attraverso l’analisi dello spazio e delle sue potenzialità. Cosicché l’arte sperimenta con i suoi strumenti basilari, ridotti a linea, forma, luce e colore, l’essenza stessa dello spazio inteso come pura differenza e pluralità delle forme e dei loro rapporti, che a loro volta si relazionano con un vuoto assoluto che ne rende possibile l’esistenza. Nell’ottica funzionalista l’orizzonte dell’azione estetica sarebbe attingere l’essere dello spazio nella sua molteplicità e dunque nella sua libertà. Lo spazio secondo Heidegger “libera ciò che è libero”, “accorda, grazie a questo libero, la possibilità di contrade, di vicinanze e lontananze, di direzioni e limiti, le possibilità di distanze e grandezze”. Interessante in tal senso la testimonianza dello stesso De Fusco sull’utilizzo dello spazio per l’allestimento, curato da Renato Barisani, della mostra del MAC napoletano. “Questo conformava lo spazio sia utilizzando i nostri pannelli a parete, sia sospendendoli e/o collegandoli a montanti e traversi nel vuoto della sala, onde creare percorsi. Il tutto, sempre a opera di Barisani, era unificato da dissimmetriche strutture spaziali lignee: tondini si snodavano tramite piccole sfere, partivano da una sagoma geometrica piana o solida per espandersi in ogni direzione, attraversavano quadrati e rettangoli, a loro volta traforati a cerchi”. Questo orientamento costruttivista alla conquista dello spazio sotto il segno della libertà estetica spiega anche l’interesse prioritario del MAC napoletano per la scultura, in particolare con Barisani, nella cui opera scultorea coerentemente prevale un orientamento verso la scansione analitica dello spazio, secondo una logica bidimensionale simile a quella della pittura; e spiega anche il richiamo forte, esplicito anche nella dichiarazione-manifesto redatta da De Fusco, all’architettura come linguaggio che ha potuto realizzare concretamente i suoi principi estetici pur nella crisi generale delle arti figurative. “La sola architettura resistette all’impopolarità delle altre arti, infatti continuò la tradizione della cultura figurativa contemporanea senza mai assumere un ruolo secondario, anzi introducendo e risolvendo i problemi posti dalla pittura e scultura. Dal cubismo prese la concezione dello spazio quadrimensionale, dal purismo la stereometria, dal neoplasticismo la suddivisione dei volumi in piani che legassero lo spazio interno all’esterno e persino l’espressionismo trovò il suo equivalente architettonico. Questo perché l’architettura con la sua funzionalità non mirava a rappresentare ma a formare”. La concezione funzionalistica della produzione artistica propria del MAC si spinge, in particolare nel gruppo napoletano, fino alle sue estreme conseguenze: come in altri movimenti fondamentali del ‘900, dal Costruttivismo a De Stijl al Bauhaus, l’orizzonte è anche integrare le arti figurative con l’architettura e il design, in modo da “inserire il lavoro artistico nella produttività contemporanea dall’architettura alla produzione industriale”

Renato Barisani e la terza via dell’astrazione

Il MAC napoletano declina in pochi anni e la sua esperienza si esaurisce anche perché i suoi protagonisti sono in parte attratti da altre suggestioni: informali, segniche o, come nel caso di Venditti, da un ritorno alla figurazione. Tra gli artisti che riprenderanno in seguito un percorso di ricerca nell’ambito della pittura astratta si segnala in particolare Renato Barisani, che tuttavia abbandona il rigore formalista e razionalista insito nel concretismo per declinare ancora l’astrattismo ma su basi rinnovate, approdando soprattutto negli anni ’80 e ’90 a risultati originali di grande spessore qualitativo, pur nell’indifferenza dimostrata dalla maggioranza della critica italiana. Nell’ambito in particolare della sua ricerca definita“astrazione organica” il segno ha ormai abbandonato il razionalismo funzionalista del MAC, ma resta ugualmente distante dal lirismo contemplativo ed espressivo che costituisce ancora uno degli approcci privilegiati all’astrazione. L’opera non è per Barisani lo spazio della muta contemplazione ascetica delle idee come nei grandi lirici dell’astrattismo, ma piuttosto un campo di forze in divenire: forze di coesione o di scissione, di attrazione o di separazione, soprattutto forze di incastro e di compenetrazione che evocano la sensazione della materia e del corpo. Tema prediletto dell’artista, come ha scritto il critico Marco Di Capua, sembra essere quello “della calma apparente, del combattimento tra un rivolo, un cuneo trafiggente e una campitura inerme, violata”. E con il linguaggio dell’opera muta radicalmente anche la fruizione dell’arte. Se l’astrattismo classico trova il suo corrispettivo nell’occhio contemplativo, in una sorta di nuovo platonismo estetico, l’astrazione organica di Barisani chiama piuttosto lo spettatore a una fisica della sensazione. Uno dei nodi fondamentali con cui si confronta ogni artista è certamente l’effetto dell’opera e Barisani trova in questa fase, in un’azione sospesa tra necessità e caso, una pittura che non agisce e incide solo sullo spirito, ma soprattutto sul sistema nervoso. La stessa aspirazione che, in un universo stilistico molto distante, sottolineava Francis Bacon. Forse è nell’opera del grande maestro napoletano che si sperimenta in Italia il primo significativo incontro tra l’astrazione classica, ispirata all’estetica della visione-contemplazione, e la pittura informale, guidata dall’estetica dell’azione-passione.

Pittura e Vesuvio: il Gruppo 58

L’altro grande movimento artistico del dopoguerra nasce invece da differenti presupposti estetici. A breve distanza di tempo dal declino del MAC napoletano negli anni 50’una nuova via di sperimentazione pittorica, solo apparentemente riconducibile al filone informale, nasce lungo l’asse Milano-Napoli: la Pittura Nucleare. La ricerca stilistica che porterà alla nascita formale del movimento si sviluppa quasi contemporaneamente nelle due città, e la partenza è suggellata da un incontro tra i promotori napoletani, Colucci e Biasi, ed il teorico milanese del movimento, Baj, nel suo studio. La ricerca degli artisti nucleari vuole essere una sperimentazione pittorica, cromatica, visiva in cui il rapporto tra forma ed energia viene capovolto e, come scrive Guido Biasi: “l’introspezione della materia è alla base della sua visione cromatica e l’energia definisce la sua forma”. La forma, pur nella sua versione esplosiva e dissolta, resta pur sempre il contenitore dell’energia in gran parte della pittura informale di matrice gestuale, mentre per i pittori nucleari l’energia è la fonte e la forma stessa dell’opera. Nell’arte nucleare vi è quindi una vocazione quasi scientifica e oggettivistica, come conferma la definizione stessa, distante dal residuo di soggettivismo romantico ancora presente nella pittura gestuale informale o tachiste, anche a dispetto di esiti che talora sembrano in superficie esteticamente convergenti. Questo ritorno all’oggettività, propria del movimento nucleare, getta anche le basi per un progressivo ritorno a nuove forme di figurazione, benché su basi completamente rinnovate. E’ proprio la nascita del Gruppo 58 quindi che apre percorsi del tutto innovativi nella scena artistica napoletana, le cui fortune non decollano a livello internazionale solo a causa di una obiettiva marginalità della città rispetto al sistema dell’arte e al suo mercato. Il manifesto del Gruppo 58 firmato da Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca e Persico, testimonia, in un testo breve quanto denso, la portata innovatrice del gruppo. Il manifesto prende innanzitutto le distanze dall’estetica surrealista: “Gli incanti non bastano più a soddisfare la nostra coscienza, e probabilmente neanche i nostri sensi desiderano più alcuna droga. Troppi sogni ci hanno devastati”. Ciò che si imputa al Surrealismo è il suo rapporto essenziale con le suggestioni dell’inconscio inteso ancora come il teatro di rappresentazioni simboliche, spesso legate al linguaggio del sogno secondo una logica freudiana. Lo stesso metodo paranoico-critico di Dalì, il più freudiano tra i Surrealisti, riconduce i fenomeni deliranti ad una griglia interpretativa, associandoli quindi ad un linguaggio simbolico. Per gli artisti napoletani quella dei Surrealisti è una visione statica e sterile dell’inconscio “Non vogliamo negare la verità dell’inconscio ma riteniamo necessario che questo inconscio smetta di raggomitolarsi e di mordere la propria coda per trovare finalmente la chiave di una architettura etica senza illusioni e senza balbettii”. Questi artisti vogliono cioè superare la concezione asfittica di un inconscio attualistico puntando piuttosto alla riscoperta di un inconscio originario e mitico. Una sorta di memoria ontologica e ancestrale: “Riteniamo insomma che sia giunto il momento di chiudere il tormentoso rubinetto dell’inconscio e di gettare un ponte fra il presente della nostra civiltà spirituale e l’Origine, dimostrando quanto questa civiltà sia ancora capace di cantare con semplicità le albe primordiali pulsanti nella memoria del suo sangue”. L’orizzonte quindi non è costituito da Freud e dall’interpretazione del presente, ma dalla ricerca dell’originario, inteso più che nel senso storico, soprattutto nel suo significato mitico, etico e ontologico, una dimensione in cui “la più primitiva delle nostre diecimila nature…tenta di ricreare il gesto più spontaneo e più puro, di stabilire il più autentico rapporto fra la nostra civiltà e i miti primordiali che ancora abitano i suoi tessuti”. Nel successivo Manifeste de Naples firmato dall’intero gruppo oltre che da Baj e da scrittori e intellettuali come Balestrini, Sanguineti etc, il bersaglio principale è invece l’astrattismo. “L’astrazione non è arte, ma solo concetto filosofico e convenzionale. L’arte non è astratta benché vi possa essere una concezione astratta dell’arte. Questo neo-neoplatonismo è da tempo superato dagli avvenimenti della scienza moderna, quindi non ha più ragione d’essere come fenomeno vitale e attuale”. Alla visione spiritualistica e platonica dell’arte astratta si contrappone una sorta di nuovo materialismo inteso come esplosione di energia che trova infatti nel vulcano una felice metafora: “Siano le nostre opere meteore, lava e lapilli, polvere cosmica, carburo in accensione, orbite di violenza, traiettorie di sensi, intuizioni radioattive, zolfo, fosforo e mercurio...”. In realtà questa formulazione teorica trova una sua applicazione letterale soprattutto nella prima produzione di questi artisti, che converge ampiamente con le opere degli artisti nucleari. Il gruppo sceglie ben presto i percorsi di una nuova figurazione che si allontana in parte dalla vocazione scientifica pur presente nelle formulazioni dei due manifesti e privilegia piuttosto il tema filosofico dell’Originario. Forse anche in seguito alla progressiva divaricazione della ricerca estetica dei singoli artisti, negli anni successivi il Gruppo 58 si disperde: Guido Biasi si trasferisce a Parigi, Del Pezzo e Fergola operano soprattutto a Milano. Il movimento lascia il posto ai singoli artisti, tutti di grande valore, che proseguono in varie direzioni la ricerca iniziale spesso con esiti molto differenti, benché di notevole qualità stilistica. Gli artisti fondatori del Gruppo 58 declinano infatti anche in epoche successive la loro aspirazione alla ricerca dell’Originario in diverse forme. La metafisica degli oggetti e dei simboli di Lucio Del Pezzo cerca il sincretismo, la contaminazione culturale e linguistica in senso diacronico e sincronico, alla ricerca di una sintesi, di una nuova idea del mondo che affonda le proprie radici anche nel passato e che può essere colta solo attraverso la levità del gioco combinatorio, in una dimensione in bilico tra intuizione e progetto. Le indagini di Guido Biasi sulle stratificazioni della memoria sembrano volte a liberarla dalle sue incrostazioni sedimentate nella storia della Cultura e a ricondurre la memoria alla sua essenza primigenia intesa come autoconsapevolezza del mondo in senso storico, estetico ed ecologico. Dopo una lunga esplorazione dell’arte del passato sospesa tra i registri enigmatico ed ironico, l’ultimo Sergio Fergola aspira con i suoi smontaggi surreali a una nuova coscienza del Tempo: i suoi personaggi attraversano il mondo storico e fenomenico, ma solo per esprimere la loro attrazione verso la forma eterna del tempo(αών), la loro segreta vocazione per l’infinito nell’unità metafisica del passato e del futuro. Il procedimento di Mario Persico insiste sulla costruzione di immagini di ascendenza magicoonirica, che non sono tuttavia evocative di un mondo ideale e di un tempo sospeso, ma piuttosto propense a cogliere l’interazione del fantastico e del mitico nella vita quotidiana delle società contemporanee. Forse solo gli altri due protagonisti e fondatori del Gruppo 58, Luca (Luigi Castellano) e Bruno di Bello, si discostano da questo terreno comune scegliendo percorsi di orientamento tendenzialmente concettuale, che in particolare con Di Bello spesso diventano innovativi nelle idee e sperimentali nelle tecniche adottate. E’ curioso notare in conclusione come, nonostante le enormi differenze tra i due storici movimenti, li accomuna una rivendicazione della funzione oggettiva dell’arte, che è per gli artisti del MAC ricerca di forma in grado di interagire con la realtà e di modificarne la percezione, per gli artisti del Gruppo 58 ricerca di una realtà originaria capace di superare le suggestioni e le illusioni dell’onirismo manieristico di matrice surrealista, e quindi di innescare un reale cambiamento. In entrambi i movimenti ci troviamo in genere di fronte a un’arte affermativa e propositiva, solare, mediterranea, che conserva persino echi della filosofia greca o latina, da Epicuro a Lucrezio. Forse l’unica eccezione è rappresentata dall’artista più atipico del Gruppo 58, Sergio Fergola, nella cui ispirazione prevale negli anni ’50 una visione profondamente pessimistica della civiltà moderna, elaborata poi in senso critico da Riccardo Barletta nel ’61 in un importante saggio attraverso il concetto di Natura Artificialis. Ne deriva spesso in quegli anni nell’opera dell’artista un’immaginazione cupa e notturna che richiama forse le visioni livide di un certo Barocco Napoletano ed anche una concezione dialettica della produzione artistica, per la quale la funzione preminente dell’opera sarebbe assumere nella propria struttura e quindi rispecchiare e denunciare le antinomie e i conflitti del mondo moderno, “facendo appello, nel linguaggio cifrato del dolore, alla trasformazione” secondo un orientamento molto vicino all’estetica di Adorno. In ogni caso, in entrambi i movimenti la pratica artistica riassume in sé una funzione etica e progressista, contribuisce a edificare civiltà, secondo una logica costruttiva e razionalista per gli artisti del MAC, secondo una logica intuitiva e introspettiva per gli artisti del Gruppo 58.                                                                                                        Antonio Paladino



2017-11-13