|
|
PICASSO. Ho voluto essere pittore e sono diventato Picasso |
|
|
|
|
Pisa, Palazzo Blu
dal 15-10-11 al 29-01-12
Claudia BeltramoCeppi
|
|
|
|
La natura e l’arte sono due cose differenti. Noi esprimiamo nell’arte la nostra idea di quello che la natura non è. Pablo Picasso
Quando l’allora ambasciatore di Spagna in Italia, Sua Eccellenza Don Luis Calvo Merino ci ha proposto di concludere con una rassegna su Picasso questo ciclo di mostre che Palazzo Blu ha dedicato al Mediterraneo nell’arte del Novecento, l’ipotesi ci ha lasciati un po’ preoccupati e un po’ perplessi. Preoccupati, perché trattare di un’artista proteiforme e gigantesco come Picasso nell’ambito di una rassegna necessariamente limitata non ci sembrava facile, e perplessi perché restringere a una sola tematica, per quanto ampia come il Mediterraneo, l’attività creativa del maggiore artista del Novecento, quello che ha definitivamente ribaltato in tutto il mondo il concetto di arte, ci sembrava impossibile. Tuttavia la sfida era troppo stimolante e, con l’accordo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa, abbiamo deciso di accettarla. Ponendo la condizione, secondo noi necessaria, di non limitarsi, nella scelta delle opere, a quella di una esplicita mediterraneità delle medesime. Picasso, che ha trascorso quasi tutta l’esistenza in Francia, prima a Parigi e poi, sempre di più, in Costa Azzurra, è tuttavia rimasto profondamente legato alla Spagna. Picasso è infatti e innanzitutto, un uomo, un artista spagnolo. Come ci avverte Gertrude Stein nel suo libro dedicato a Picasso, che fa derivare la nascita del cubismo direttamente dalla costruzione fisica a cubi contrapposti alla montagna di Horta de Hebro e dei villaggi spagnoli; come ci ricorda lo stesso Picasso alla fine della sua vita, parlando con André Malraux: «Noi, gli Spagnoli, siamo la messa al mattino, la corrida al pomeriggio, il bordello la sera. E che cosa unifica tutto ciò. È la tristezza. Una strana tristezza. Come l’Escorial». E la Spagna è certamente il Mediterraneo, ma anche molto di più. Del Mediterraneo Picasso coglie ed elabora nel corso della sua vita, tutti i miti. A cominciare dal più noto: quella figura del Minotauro, il mostro cretese – nato dagli amori della figlia di Minosse, Pasifae, con un toro bianco – che nella sua opera rappresenta di volta in volta l’amore carnale, ma anche la violenza della guerra, intrecciandosi tuttavia continuamente con l’immagine del toro, personaggio principale e deuteragonista del torero nella tragedia della corrida, lo spettacolo con cui Picasso si identifica più profondamente. Per finire con il tema della metamorfosi, la cui origine mediterranea è citata esplicitamente nelle illustrazioni di Ovidio, ma ricomparirà continuamente nell’opera del pittore catalano, sotto forma di figure mitiche – satiri e ninfe – che invadono prepotentemente le sue opere. E anche le opere del periodo blu degli inizi, che portano in sé i colori di un mare non consolante, e quelle successive degli anni del cubismo prima e del classicismo poi, hanno una chiave di lettura che non può prescindere dal forte radicamento nella cultura mediterranea. Tuttavia, per Picasso nessuna lettura è univoca, ed è difficile prescindere dall’altro aspetto, quasi esorcistico, che tanto ha contribuito a fare dell’artista stesso un mito vivente. Anche qui, per meglio comprendere, ci è di aiuto una conversazione avuta con l’amico, artista come lui e ministro della Cultura francese, André Malraux, a proposito dell’influsso dell’Art nègre sulla sua opera e della nascita delle Demoiselles d’Avignon, il dipinto (di cui presentiamo in mostra un grande e importante disegno preparatorio) che avrebbe cambiato la storia della pittura. «Le maschere, non erano sculture come le altre, non lo erano affatto. Erano cose magiche... I negri, erano intercessori (mi ricordo la parola francese da allora). Contro tutto: contro gli spiriti sconosciuti, minacciosi. Guardavo tutti quei feticci. E ho capito. Anch’io sono contro tutto. Anch’io penso che siamo circondati da forze sconosciute, nemiche. Il Tutto! Non i dettagli: le donne, i bambini, gli animali, il tabacco, il gioco...ma il Tutto! ho capito a cosa servivano ai negri le loro sculture. [...] tutti i feticci avevano la stessa funzione. Erano armi. Per aiutare la gente a non obbedire più agli spiriti, per diventare indipendenti e erano utensili. Se noi saremo capaci di dare una forma agli spiriti diventeremo indipendenti. Gli spiriti, l’inconscio (di cui si parla tanto), le emozioni: è sempre la stessa cosa. Ho capito allora perché ero pittore. [...] Les Demoiselles d’Avignon sono nate probabilmente quel giorno, ma non a causa delle forme: ma perché quella è stata la mia prima tela di esorcismo, proprio così!». Dunque, l’arte come arma, come scudo contro gli altri, contro l’esterno: ecco un aspetto dell’opera di Picasso che non bisogna dimenticare. Poi però, strettamente connesso a questo precedente, è il concetto dell’arte come continua trasformazione. Sempre ed esplicitamente contrario all’arte astratta, Picasso fu un pittore realista, che trasse dalla realtà, della natura o dell’arte, il nutrimento necessario a portare a termine quel sovvertimento dei valori in cui ricercava l’unica cosa che lo interessava veramente: la tensione del creare. E questo è l’interrogativo che ci siamo posti in questa mostra. Come rendere evidente questo continuo itinerario, fondamentale per comprendere il processo creativo di Picasso, dal realismo delle forme a un “realismo delle emozioni”. Abbiamo trovato una risposta nelle opere su carta. Mentre la genesi dei dipinti – che ci viene magistralmente descritta da Françoise Gilot a proposito del celeberrimo suo ritratto La femme fleur – è difficilmente leggibile sulla tela su cui le successive correzioni e ripensamenti sono stati ricoperti dalla pittura stessa, ciò è possibile nelle opere su carta. Il procedimento di Picasso, dalla natura all’arte, si legge magnificamente nel suo continuo progredire, a cominciare dalla serie celeberrima dei tori, in cui si parte dall’immagine di straordinario, quasi düreriano, realismo di un magnifico toro Miura, per giungere, attraverso undici stati, tutti mantenuti, alla sintesi finale, quasi una copia degli affreschi murali di Altamura. Proseguendo fino alla meno conosciuta, ma altrettanto avvincente serie delle donne nude, e alle trasformazioni dell’immagine di Jacqueline, l’ultima musa e moglie dell’artista, da un ritratto ben riconoscibile a un’immagine deformata in cui i tratti del viso si intersecano e si urtano, apparentemente senza logica alcuna. Accanto alla mediterraneità della Spagna, e al concetto della metamorfosi come elemento sincretico strettamente connesso alla genesi di un’opera d’arte, un altro aspetto dell’attività di Picasso che ci è sembrato impossibile da tralasciare, è quello del suo impegno civile, divenuto prevalente a partire dagli anni Trenta del Novecento. Si tratta del suo ruolo pubblico, della presa di coscienza sempre maggiore del suo ruolo dell’artista, che lo porterà ad alcune scelte fondamentali per la sua arte e la sua immagine pubblica, dalla denuncia della guerra di Spagna al discusso ingresso nel Partito Comunista. Se notissima è la descrizione della strage di Guernica, che dà il titolo all’omonimo dipinto che dopo la caduta del Franchismo venne riportato a Madrid dagli Usa (Picasso stesso aveva chiesto che l’opera non rientrasse in Spagna prima della fine della dittatura), per essere esposto al Centro de Arte Reina Sofia in una sala appositamente dedicata, meno noto è quanto il tema della guerra abbia influito su tante altre opere dello stesso periodo. Guernica venne realizzato su commissione della Repubblica spagnola per il padiglione spagnolo dell’Esposizione internazionale di Parigi del 1938. Michel Leiris, il noto intellettuale, amico dei surrealisti e cognato di Henri Kahnweiler, il maggiore e ultimo mercante di Picasso, annoterà nel suo diario: «In un rettangolo bianco e nero, così come ci appare la tragedia degli antichi, Picasso ci recapita la sua comunicazione luttuosa: tutto quello che amiamo sta per scomparire, ecco perché è necessario che tutto ciò che amiamo venga riesumato, come nell’effusione degli addii ultimi, in qualcosa di una bellezza indimenticabile». Notiamo, incidentalmente, che i diversi stadi del dipinto vengono documentati, questa volta, da ben quarantacinque fotografie di Dora Maar che sembrano voler corrispondere a un’esigenza che Picasso aveva così confidato a Christian Zervos, l’amico poeta che sarà poi l’autore del catalogo generale delle sue opere: «Sarebbe interessante, in realtà, riuscire a fissare fotograficamente, non le diverse tappe della genesi di un’opera, ma le sue metamorfosi. Forse sarebbe possibile rendersi conto così del cammino che un cervello segue nel tentativo di concretizzare il suo sogno. Ma ciò che è davvero curioso è che ci si renderebbe conto a quel punto che il quadro in fondo non cambia; che, nonostante le apparenze, la visione iniziale non cambia, resta sempre la medesima». Nel gennaio del 1937, attendendo la delegazione della Repubblica che gli affiderà l’incarico di Guernica, Picasso si dedica alla realizzazione di due tavole pensate come una sorta di fumetto, di cui ognuna è costituita da nove vignette che rappresentano una violenta caricatura di Franco e degli orrori della guerra. Le due tavole, che verranno terminate solo il 7 di giugno, sono accompagnate da un testo poetico dello stesso Picasso che così suona: «Gridi di bambini gridi di donne gridi di uccelli gridi di fiori gridi di travature e di pietre gridi di mattoni gridi di mobili di letti di seggiole di tendine di pentole di gatti e di carte gridi di odori che si graffiano gridi di fumo che pongono alla gola i gridi che cuociono nella caldaia e i gridi della pioggia d’uccelli che inondano il mare che rode l’osso e si rompe i denti mordendo il cotone che il sole intinge nel piatto che il borsellino e la borsa nascondono nell’impronta che il piede lascia sulla roccia». Le due tavole, che presentiamo in mostra, erano state in realtà concepite per essere vendute sotto forma di album durante l’Esposizione a profitto della causa repubblicana. Altre due opere importanti ci segnalano l’influsso potente esercitato su Picasso dalla guerra, che questa volta egli vive a Parigi, durante l’occupazione nazista, rifiutando di andarsene e di fuggire come molti hanno fatto. A questo proposito l’amico fotografo Brassaï dirà: «La sua presenza ci è di conforto e di stimolo, e non solo a noi, ai suoi amici, ma anche per tutti coloro che non lo conoscono» e Prévert, il grande poeta, gli fa eco: «Sono d’accordo con te [...] Mal giudicato dai nazisti corre il rischio di essere internato, deportato, preso in ostaggio. Anche la sua opera che viene detta “arte degenerata” o “arte bolscevica”, ed è già condannata in quanto tale, corre il rischio di essere bruciata al rogo. Nessuno al mondo, né il Papa, né il Santo Spirito in persona potrebbero impedire un simile auto da fé [...] E più Hitler e i suoi accoliti saranno agli estremi, più la loro rabbia può divenire pericolosa, assassina e distruttrice. Poteva Picasso sapere come avrebbero reagito? Ha accettato il rischio. È tornato in una Parigi occupata. È qui con noi. Picasso è un gran bel tipo». In Poèmes et lithographies Picasso raccoglie una serie di poemi, scritti da lui stesso durante gli anni dell’occupazione, che denunciano la tristezza e la banalità della vita di guerra. Egli li pubblicherà poi nel dopoguerra accompagnati da incisioni che riprendono tutti gli archetipi della pittura picassiana, quasi una volontà di dimostrare, pur nel lutto del bianco e del nero, la persistenza delle tematiche che hanno costituito la sostanza della sua arte. Quasi contemporaneamente, su suggestione dell’amico editore Tériade, egli pubblica, con l’amico poeta Paul Reverdy, Le chant des morts. Con una decisione piuttosto azzardata per un editore, il libro si compone solo di testi autografi: i poemi, scritti nell’elegante calligrafia di Reverdy sono commentati, in una sorta di alfabeto di sangue, dai segni grafici di Picasso che nulla lasciano alla raffigurazione, ma si limitano a commentare, in una sorta di diapason emotivo, il contenuto dei poemi dell’amico. Per l’appunto il “canto dei morti”.
|
2011-10-31
|
|