TRA POETI ED EROI
A MESOLONGION
 







di Emilio B E N V E N U T O




Sebbene Maometto ii avesse ormai conquistato, nel 1467, l’Albania e la Morea, la lotta per l’indipendenza albanese e greca non cessè: la guerra rimase latente, mal condotta, qua finita, là rinacente, ma comunque attestante l’indomabile energia delle due Nazioni schipetara ed ellenica e la persistenza della loro vita.
I fieri montanari del Taigeto, in Laconia, quelli dell’Olimpo, in Tessaglia, del Parnaso, nella Focile, del Pindo, in Epiro, divennero hajdut,  clefti e armatoli e vissero in compagnia dei lupi e degli orsi, pu di non vivere in compagnis dei Turchi. La resistenza fu allora sulla montagna e si videro gli eroismi dei Sulioti e del loro condottiero Photos Tsavellas; poi vennero i combattimenti in campo aperto e gli assedi di città e l’Europa imparò i nomi di Bòtzaris,  Kolokotronis e Odisseo e di Missolungi.
Infine la guerra si combattè anche sul mare ed ecco Kanaris e Maulis. La causa della libertà, scesa dai monti, calava al piano e correva sul mare e altrettanto alto risuonava l’eco di nomi  antichi ma mai obliati,  della Kruja di Slanderbeg alla  Nàfpaktos di Don Giovanni d’Austria.
Come partire da Patre, la capitale dell’Acaia. senza prima visitare Mesolòngion, la Missolungi  degli epici assedi postile dai Turchi tra il 1822 e il 1826.
E’ una non ricca città di circa 12.ooo abitanti, separata dal mare da una laguna larga sette chilometri.
L’amico Dimìtrios Koùvas, che mi è compagno di viaggio e parla correntemente l’italiano on qualche venatura bergamasca, mi fa, al solito, da cortese guida.
M’accompagnò prima a fare un giro sulle mura, le quali, così ad occhio e croce, mi parvero risalire ai Veneziani. Vero è però che al tempo degli assedi, i Greci diedero ai bastioni i nomi del Botsaris, del Byron, del Franklin, del  Tell e del Rigas, il Tirteo della rinata  Grecia, consegnato dall’Austria ai Turchi e autore dell’inno nazionale: “ DEUTE, PAIDES TON ELLENON!”
Ci avviamo  verso il giardino pubblico o HEROON e ci fermiamo a osservare la gente, che per la più gran parte del giorno ama nei giorni non lavorativi vivere all’aperto.
Mi riesce d’intrattenermi con un giovane Ufficiale, che parla correntemente l’italiano. Mi dimostra tutta la calda simpatia greca per un visitatore italiano del suo Paese e ci acompagna allo HEROON.
Questo HEROON è un vasto recinto, limitato a nord da mura, che in un dato punto formano un’opera avanzata triangolare con troniere e cannoni. Giù, nel fossato, molte palle di ferro da cannone; con palle di frrro delimitate le aiuole del giardino. Nel mezzo s’innanza un tumulo, “ai Caduti combattendo per la libetà della Patria”, simile a quello detto degli Orazi sulla nostra Via Appia; poi v’è la tomba del Gen. Norman, il sarcofago del Bòtzaris e la statua del Byron.
Per questi grandi morti io ero venuto a Missolungi.
Il 21 ottobre 1822, dopo la battaglia di Peta, in cui fu disperso l’esercito della Grecia occidentale,
fallito il tentativo di resistere in Epiro, il Presidente Maurocordato con 35 soldati e Marco Bòtzaris con 37 vennero a chiudersi a Missolungi quasi deserta.  Con 300 soldati e pochi cannoni vi si difesero per più di due mesi contro 11.ooo Turchi.
L’anno seguente Marco Bòtzaris esce della città e con poche centinaia dei suoi, a Katpenitzi, penetra con uno stratagemma, la notte del 15 agosto, nel campo turco forte di 15.ooo soldati e, aiutato da altri capi appostati nelle vicinanze, li sbaraglia e mette in fuga; ma, ferito mortalmente, spira all’età di 35 anni. Il suo corpo è riportato a Missolungi coperto di bandiere nemiche. Il popolo gli muove incontro e sparge fiori al suo passaggio e s’inginocchia e canta miriologi; il Byron lo piange e vuole dedicargli un poema.
Il giorno stesso della battaglia di Karpenitzi, l’eroe aveva appunto scritto al poeta, già deciso a venire in aiuto di Missolungi:
“Vostra Eccellenza è veramente la persona che ci bisogna. La trattenga dal recarsi qua! Un nemico forte di numero ci minaccia, ma, coll’aiuto di Dio e di Vostra Eccellenza, gli si resisterà come si conviene. Avrò qualche cosa da fare questa notte contro un corpo di Albanesi che campeggia presso la piazza, Posdomani partirò con alcuni uomini scelti per venirle incontro. Non tardi. Intanto La ringrazio della buona opinione che ha dei miei compatrioti, la quale, spero, non Le sembrerà mal fondata”.
Semplicità e modestia degli eroi! Quel qualche cosa da fare non era altro che il sacrificio di se stesso ed era sacrificio fatto consciaemente, perché, al calar della notte, Bòtzaris s’appartò dai suoi e cadde in grande tristezza. Sorpreso da un parente in quello stato, pronunziò queste sole parole: “Il mio dovere è penoso. Ti raccomando mia moglie e i figli”.     
Sul punto di lanciarsi sul campo nemico, vista un po’ di esitazione dei suoi trecento, li ammonì, come Giovanni Cairoli i suoi sessanta, ma senza minaccia alcuna: “Siete liberi di restare, Quanto a me, io parto. Se mi perdete di vista, correte alla tenda del Pasha e mi ci troverete”. Allora i suoi Palikari trassero le sciabole dai foderi, che gettarono, si diedero l’abbraccio di pace e lo seguirono.
Tra tutti i capi greci, Marco Bòtzaris fu forse il solo che non venne meno a quel tipo ideale d’eroe antico che i filelleni ingenuamente s’aspettavano d’incontrare dappertutto in Grecia. Fu veramente meritevole che di lui scrivesse un novello Plutarco: non alto di statura, biondo, agile e robusto; semplice, integro, energico, dai modi affascinanti; tenero marito della sua Kryseis, che, rifugiata ad Ancona, conobbe poi la miseria; luggiveggente politico, voleva, difendendo l’Epiro e le montagne si Suli, dove era nato, conquistare quelle province alla Grecia, sin dai primi tempi dell’insurrezione; magnanimo al punto di osar di mancare alle tradizioni della sua gente, che facevano della vendetta un dovere e di perdonare, per carità di patria, Gogos, assassino disuo padre, da cui fu poi tradito. Fu eroe nel senso più vero e doloroso della parola, poiché la firuna e gli uomini gli furono ugualmente avversi.
Non meno degno d’eroica fama si rese allora Lord George Gordon Byron, già poeta celeberrimo per altezza d’ingegno.
Col Conte Pietro Gamba e col Cap. Trelawny salpò da Genova venerdì 15 luglio 1823, vincendo la superstizione che gli faceva tenere il  venerdì come giorno di cattivo augurio: “Qualcosa mi dice che non tornerò dalla Grecia”, predisse, ma ugualmente partì.  Ben diversamente da Ugo Foscolo, pur greco (“jure soli”, prerché  nato  nella greca Zante nel 1778 e anche  “jure materni sanguinis” per esser figlio della greca Diamantina Spathis),  egli sentì la voce misteriosa che attrae i poeti verso la terra sacra degli eroi dell’Ellade e vi andò “per fare qualche cosa più che dei versi”.
 Ai combattenti recava denaro, provvigioni e l’alto valore di un nome famoso in tutta l’Europa. Finanziò la flotta,  assoldò 500 Sulioti, fece appello alla concordia dei Greci e all’umano trattamento tra i  belligeranti; tollerò i difetti dei Greci; si preparò ad assalire Nàfpaktos. Anche a lui la sorte fu avversa: lo colse la malaria, i medici tentarono di curarlo, “more solito” con salassi e lo dissanguarono, onde morì senza aver potuto compiere alcunché di grande:
Wolltest  Herrliches gewinnen,
Aber es gelang  Dir nicht.
Wolfgang von Goethe, così obiettivo, comprendeva l’altrettanto soggettivo Byron: i due grandissimi poeti si completavano a vicenda. Entrambi nati sotto le brume del nord, erano entrambi innamorati dell’Italia, della Grecia, dell’Oriente. L’inglese, dal pensiero fantastico e dall’espressione splendida, incarnava l’ideale del tedesco, che aspirava all’unione del sogno con la realtà e perciò poneva in mano al suo Werther  Omero e Ossian. Al Byron mancava la serenità; ma se il Goethe poteva esser dello olimpico, il Byron poteva esser detto umano. Se in Goethe era più arte, in Byron era più passione. Se il Faust resta il poema che pone innanzi  ai gravi problemi dell’essere e ci fa pensosi, Manfredi canta i nostri errori e ci commuove: Faust, legato al patto con Mefistofele, invoca, morendo, l’Angelo da esso liberatore; Manfredi respinge lo spirito della morte  dicendo: “Indietro! Tu non hai potere su di me . . . Non è cos’ difficile morire”. Era necessario che il Byron si lanciasse all’azione, l’In Anfang war del That da cui rifuggiva il Goethe, affinché ai lettori fosse resa intelligibile la seconda parte del Faust.
Assalito dalla malaria, Byron capì la gravità del suo stato e virilmente, senza rimpianti, si preparò alla morte. Quel che solo temeva, non potendo dormire, era d’esser colto dalla perdita dell’intelletto: “I would  ten times sooner shot myself than be mad, for I am not afraid of dying. I am more fit to die than people think . . .”
Il 18 aprile 1824 invocò la sua piccola Ada, invocò lasorella e anche Lady Byron, dalla quale era separato: “Oh, my poor dear child! My dear Ada!  My God! Could  I have but seen her!  Give her my blessing . . . and my dear sister Augusta and her  children  . . .  and you will go to Lady Byron and say . . . tell her everything . . . you are friends with her . . . I must sleep now . . .” Seguirono 24 ore di letargo e poi spirò alle sei del mattino del 19 aprile, in età di 37 anni.
Era il Sabato Santo e migliaia di persone erano convenute in piazza per scambiarsi il tradizionale augurio  “Chrìstos anésti!” e si domandavano  come stesse Lord Byron.
Lo Stato greco ordinò tre giorni di lutto pubblico e fece tirare a salve dalla grande batteria delle mura 37 colpi di cannone, quanti erano gli anni del poeta.
 La sua salma fu trasportata a Londra, ma i bigotti, sia della Chiesa di S. Paolo che dell’Abbazia di Westminster la respinsero. Perfino la sua statua, scolpita dal grande danese Bertel Thorwaldsen e pagata con pubblica sottoscrizione fu  respinta.
Su quegli ipocriti gravi nel secoli il giudizio del nostro Giovanni Prati:
Non vi giovi indagar com’è vissuto;
Pensate sol dove il poeta è morto!
Fu sepolto nella tomba di famiglia, a due miglia da Newstead, accanto alle ceneri della madre: degna risposta patrizia a un insulto plebeo!

 






2012-03-18


   
 



 
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