Gilles Coton e il magico tour di Pasolini
 







Davide Turrini




-Esco dal mio albergo, sono solo e porto in giro i miei due occhi, più ingenui e contenti di quel che credessi-. Nel 1959 Pasolini intraprende un viaggio su una Fiat millecento da Ventimiglia a Trieste, scendendo e passando in Sicilia e «ancora più giù». Quattromila chilometri di coste, sabbia, arbusti cemento e ferraglia, impasto di elementi naturali e artificiali che si ritrovano armoniosamente sulle pagine del reportage La lunga strada di sabbia che il settimanale Successo pubblicò all’epoca. Il regista belga Gilles Coton ha pensato che lo stesso percorso, un filologico tappa dopo tappa, paese dopo paese, potesse essere ripetuto oggi, in questa Italia consumata da scandaletti e ruberie, misera tv e cultura del ribasso. Ne è uscito un documentario che lascia a bocca aperta, che stupisce per ieraticità dello sguardo, intitolato Qui finisce l’Italia. Ora, parlare di Pasolini oggi, sembra la solita solfa da contritosalotto borghese. Invece, la visione del film di Coton è una sorta di balsamo per gli occhi, di autentica sensibilità nei confronti di quei versi pasoliniani così liberi e lucidi, così aulici e devastanti. Pasolini scriveva, Coton osserva. C’è questa inquadratura continuata dell’asfalto, della linea di mezzeria, di quei fari che illuminano paracarri e pietre miliari, rocce e fossati delle statali. L’occhio della cinecamera che entra nei binari della visione. Ci accompagnano spesso le parole di Pasolini, le mormoranti e metalliche musiche di Dave Haumann e Nathan Bell, un ridicolo monologare di attualità radiofonica, le facce senza gerarchia sociale di un pittore, di un cameriere, di uno scrittore, di un migrante, di un insegnante e di una ballerina. Scorrono Genova, Livorno, Ostia e Napoli, la Sicilia, Francavilla a Mare, Porto Corsini e Caorle (-era uno dei più bei paesi del mondo, giuro- afferma Pasolini, -ora, chi è quell’idiota delinquente che ha permesso che si intonacassero tuttele case di nuovo col colore della cacca dei bambini? Quegli atroci rosa e gialletto dell’eterna stupidità borghese-). Qui finisce l’Italia è la reinvenzione e il riutilizzo significante della panoramica: interna (a casa di Mario Monicelli o nell’albergo di Ischia) ed esterna (sulle scogliere calabre, in piazza San Marco a Venezia), nel tentativo di cogliere l’essenza di quello che si ha di fronte, senza barriere linguistiche, spaziali e commerciali. La macchina da presa di Coton è mobile, ma non in senso isterico come vorrebbero Tornatore o Muccino, semmai con quella mobilità che permette di abitare silenziosamente e rispettosamente il presente. Dice Claudio Magris in coda al film: «il viaggio è capire se siamo capaci o no di incontrare l’altro, che non è necessariamente un indigeno della terra del fuoco, può anche essere il vicino di casa. Ed è lì che verifichiamo il senso o non senso della vita, la capacità o meno di dialogare con gli altri». Qui finisce l’Italia propone tutt’altrorispetto al piagnisteo di certi castranti video documentaristici sulla realtà politica italiana. Consente, invece, di espletare, semplicemente, l’atto puro della visione. Che poi quelle parole di Pasolini, intuizioni folgoranti sui fenomeni socio-antropologici dell’Italia ricostruita, siano tutt’uno con lo sguardo di Coton, che li mostra cinquant’anni dopo, è il risultato di un’impossibile alchimia artistica che travalica le barriere del tempo. Fondamentale composto sonoro a cura di Leny Andrieux e Emmanuel Haessig. Distribuisce la giovane CineAgenzia. Da venerdì 11 in esclusiva al neonato Kino di Roma.






2011-02-07


   
 



 
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