La civiltà dei social sembra avere tra le principali caratteristiche quella di spingere gli utenti della rete ad intervenire praticamente su ogni tema, a far sentire (o a gridare) la propria voce sugli argomenti più diversi. Si può anzi affermare che non esiste aspetto della vita civile, politica, culturale, ecc. che non sia soggetto ad affermazioni e valutazioni da parte del pubblico riunito sotto il vessillo appunto della comunicazione social. E’ nato così anche un modo nuovo di farsi sentire ovvero di interloquire con gli altri, il che ha mandato in soffitta senza appello la vecchia abitudine di affidarsi alla comunicazione tramite lettere e missive varie. C’è chi vede anche in questo la crisi sempre più vasta dell’informazione tradizionale affidata storicamente ai giornali e ai periodici nel senso che il potenziale utente non si accontenta più di ricevere dati su eventie circostanze di vario tipo ma intende essere egli stesso protagonista producendo informazioni, messaggi, riflessioni e così via. Per di più con il vantaggio di non doversi muovere dal proprio “sito”, ovvero andare all’edicola o in libreria e dover finanche pagare per acquisire dati e notizie. Questa per così dire universalizzazione dei comportamenti ha anche un’altra peculiarità che riguarda l’uso della lingua. Al di là della forma con cui vengono espresse le diverse valutazioni, colpisce l’uso di vocaboli e termini che è possibile rinvenire in molti dei messaggi espressi, tralasciando ovviamente in questo contesto ogni riferimento alla correttezza grammaticale o sintattica che andrebbe analizzata a parte. Quello che stupisce maggiormente, infatti, al di là dell’uso di una terminologia ripresa da altre lingue - ma quasi sempre dall’inglese al punto tale chesi potrebbe parlare di un nuovo idioma, l’italinglese - è il ricorso a determinati vocaboli, diremmo di moda, che piace utilizzare anche in contesti non proprio pertinenti. Valga per tutti l’esempio della parola “resiliente”, utilizzata anche nel decreto del governo per la ripresa economica. Si può dire che fino a ieri il termine resilienza (e il suo derivato resiliente) era pressoché sconosciuto alla maggior parte dei nostri concittadini essendo il termine stesso usato in ambito scientifico (la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi). Ora invece lo troviamo adoperato per indicare l’attitudine ad adattarsi per superare senza traumi un periodo difficile. E quello che stiamo vivendo, il dopo covid, è appunto un momento che rientra nella categoria di riferimento. E una volta acquisita familiarità col vocabolo, giù a più non posso col suo utilizzo. Si tratta in definitiva di quello che con untermine manco a dirlo inglese si definisce buzzword (traducibile con parola d’ordine o parola chiave), ma più genericamente vocabolo alla moda. E non importa se spesso termini di questo tipo vengono usati a sproposito; in fondo fa sicuramente chic usarli nel mezzo di una conversazione magari tra un piuttosto e l’altro impiegati in luogo della congiunzione e, oppure riproponendo a getto continuo l’avverbio assolutamente: sono solo esempi naturalmente ma possono dare la misura diremmo di una omologazione “culturale” non disgiunta da vanità o vera e propria ignoranza. Antonio Filippetti |