LA SCUOLA di BURANO al CHIARISMO
PERCORSI di PITTURA - IMMAGINI di LUCE
 







Graziella Martinelli Braglia




Augusto Zoboli
In giardino, 1973
olio su tela, cm. 138 x 184

La mostra espone una scelta di dipinti di quel comune orientamento di poetica, pur nelle differenti inflessioni di stile, che viene definito "pittura di luce", sviluppatosi fra i due poli di Burano, nella laguna veneziana, e Milano. E’ un’esperienza che parte da Pio Semeghini, giunto a Burano nel 1912, la cui attività è rappresentata in mostra dal nucleo d’opere più consistente, anche in omaggio alle sue origini "modenesi".
A Burano, presso la casa di Anna Moggioli - vedova del pittore trentino Carlo Moggioli, con Gino Rossi tra i primi a "scoprire" l’ambiente lagunare - si venne a costituire un’accolita di artisti, primo fra questi Semeghini, accomunati dalla ricerca della resa atmosferica, mediante i valori luministici e cromatici. I veneziani Carlo Dalla Zorza e Fioravante Seibezzi, allievo di Moggioli, il trentino Mario Disertori, i modenesi Mario Vellani Marchi e Leo Masinelli sono altre personalità che con i loro dipinti introducono nel percorso espositivo temi e motivi della cosiddetta Scuola di Burano. Continui saranno i contatti con l’altro polo culturale, Milano; qui, verso il 1930, spronata dal critico Edoardo Persico, una schiera di autori elabora un’alternativa ai valori plastici e strutturali del "Novecento", che andrà sotto la definizione di "chiarismo". Elemento accomunante, rispetto ai maestri di Burano, è l’interesse verso un tonalismo intriso di luminosità, che stempera la materia nella luce e nel colore. Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, Adriano di Spilimbergo, il modenese Oscar Sorgato sono gli autori che in questa sede esemplificano aspetti della poetica chiarista. Il modenese Tino Pelloni trae ispirazione tanto dalla Burano di Semeghini quanto dalla Milano di De Rocchi e Spilimbergo. E un altro modenese, Augusto Zoboli, stringe rapporti con il gruppo di Burano, acuendo la percezione degli aspetti tonali e atmosferici.
Ai dipinti di questi "pittori di luce" si sono accostate per la prima volta fotografìe high key, di "tono alto", le quali, come illustra Italo Zannier nel suo saggio, costituiscono l’equivalente del chiarismo nella tecnica fotografica. Nel novero di questi fotografi emergono due modenesi, Giovanni Tosi e Gualberto Davolio Marani. Quest’ultimo iniziò i primi esperimenti del "tono alto" all’inizio degli anni Trenta. L’ispirazione gli derivò, all’età di circa diciassette anni, osservando gli affreschi di Giotto ad Assisi: lo stupirono quei colori chiari, che restituivano l’effetto volumetrico senza l’ombra. Da questa visione gli maturò l’idea di realizzare fotograficamente chiare figure che paressero "disegni a matita su carta bianca, senza contrasti". Ed è indicativo di un clima diffuso come proprio la pittura di Giotto rientrasse tra le fonti predilette del chiarista lombardo Francesco De Rocchi, filtrandola attraverso la lezione di Modigliani. Davolio Marani fu amico di esponenti dell’arte modenese d’orientamento chiarista, come Tino Pelloni di cui eseguì il ritratto al cavalietto, e Alessio Quartieri, pittore e scultore. Di Quartieri Davolio Marani frequentava lo studio tra via Ganaceto e corso Cavour, che era anche luogo d’incontro d’artisti e intellettuali. E’ Quartieri il pittore al cavalietto che ritrae la signora in abito e cappello bianco di Portrait; ed è sempre Quartieri l’uomo con accanto il bambino che s’allontana nella nebbia in Soli. Pur non potendo istituire per l’ambito modenese un rapporto preciso tra fotografìa di "tono alto" e pittura chiarista, tuttavia sono queste alcune delle circostanze che documentano la contiguità dei due linguaggi espressivi, in un’atmosfera culturale comune.
"Millenovecentodieci... Ci trovammo casualmente in un luogo ideale per artisti di allora, isolato dal mondo e pur così vicino a Venezia. Il primo che ci venne fu Moggioli. Poi vennero Rossi e Scopinich. Poi ci venni io, nel ’12..." ’. Così Pio Semeghini ricostruiva l’inizio di un percorso artistico che avrebbe coinvolto tanta parte del ’900 italiano. Confluiranno nella sua opera le riflessioni, compiute nei soggiorni parigini, il primo dei quali dal 1899 al 1901, sui saggi degli impressionisti, e in particolare sulle vedute lagunari di Monet; e poi lo studio delle fasi cézanniane, di Gauguin e dei Nabis, la conoscenza di Modigliani; e ancora, la lezione di Matisse e dei fauves... Persino la prima educazione modenese, pur frammentaria, contribuì con il suo tirocinio accademico ad avviarlo al dialogo con le opere del passato. Semeghini elegge tra i suoi riferimenti le Madonne di Piero della Francesca e di Giovanni Bellini, in una sorta di "primitivismo" colto, che per certi aspetti anticipa le frequentazioni quattrocentiste di un chia-rista come De Rocchi. Ama anche accostarsi agli antichi affreschi - in raccolta modenese si conserva un disegno giovanile copia del Peccato originale dalla Sistina di Michelangelo -; non a caso, l’ordito dise-gnativo che permane o traspare nei
Francesco De Rocchi
Venezia, Piazza San Marco
1952, olio su tela cm. 90 x 70
suoi dipinti è stato considerato come memoria della sinopia, il disegno preparatorio alla base dell’affresco. Le opere di Semeghini in mostra, tutte inedite, consentono di approfondire alcuni aspetti del catalogo dell’artista dalla fine degli anni ’30 agli anni ’50. Ultime luci in laguna, un crepuscolo inoltrato che lambisce con una tenue luce, dal rosa al viola all’indaco, la laguna di Mazzorbo, è tavola datata al ’39, fra le più liriche dell’intera produzione dell’artista. Sulla destra si distende la punta di Mazzorbetto, a sinistra un antico convento; sulla linea dell’orizzonte, la veduta lontana di Venezia. Lingue di terra che si susseguono, con edifici geometricamente impostati, secondo una propensione per l’aspetto "architettonico" che s’accentua nel periodo lombardo di Semeghini, quando dal 1929 al ’39 insegna a Monza nell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, colleghi Raffaele De Grada, Arturo Martini, Marino Marini, mentre tiene lo studio a Milano. E tuttavia, la profondità prospettica non preme più di tanto all’autore, quanto piuttosto la mobilità delle luci, il vibrare dei colori sulla superficie marina, le splendide note smeraldo delle frange del terreno in primo piano, rese più smaglianti dall’accostamento del rosa intenso delle case. In una scritta sul retro, l’esecuzione dell’opera è precisata all’ottobre del ’39, vincolandola a un determinato momento dell’anno, come se l’autore avesse voluto sorprendere le condizioni stagionali di quello scorcio di laguna; ma l’atmosfera vi appare così rarefatta che le variabili della stagione, del giorno e dell’ora paiono pretesti per evocare un paesaggio mentale, distillato nella memoria e nel sentimento.
Dello stesso 1939 è Laguna veneta, o Chioggia. La tavola, raffigurante due bragozzi all’ancora, dalle vele rosa dorate, appare costruita con solidità architettonica, e tuttavia come trasfigurata dall’occhio dell’artista, nell’incantata fusione di azzurri e di rosa a cui s’accosta il timbro ocra rosato della tavola, che affiora nel cielo e nell’acqua. E così, la salda costruzione formale, proprio quella che fa esitare a includere Semeghini nella schiera dei "chiaristi", risulta quasi prevaricata dalle suggestioni cromatiche di una pittura liquida, imbevuta di luci.
Il 1939, l’anno di questi dipinti, appare cruciale nella biografia di Semeghini. Allestisce una sala personale alla III Quadriennale romana, è presente a New York, all’Esposizione d’Arte Contemporanea presso il Padiglione Italiano della World’s Fair, vince il primo Premio Bergamo - il secondo viene assegnato a De Pisis -. E questa Laguna veneta appare per punto di stile assai prossima al dipinto premiato, // Ponte di Chioggia, sempre del ’39 2. Non a caso, anche la Laguna appartenne alla collezione Finazzi di Bergamo, la stessa che acquisì II Ponte di Chioggia. Tavola giunta in raccolta modenese dalla personale di Semeghini tenutasi a Modena nel 1948, presso la nota Saletta degli Amici dell’Arte, è il Canale di Venezia, nel cui silenzio riposa una barca, accanto a un verde giardino racchiuso da una muraglia. E’ una pittura magra e trasparente, con effetti di peculiare luminosità nei tocchi di bianco e nei riflessi quasi opalescenti dell’acqua. Alla tavolozza sui toni rosa, aranciati, celesti e verdi si aggiunge, di risulta, il bruno-ocra del supporto, utilizzato come sostrato cromatico. Il momento stilistico di questo Canale appare di poco anteriore rispetto ai due dipinti del ’39, essendo accostabile a saggi come // Lambro a Carate Brianza del ’38, ancora del periodo lombardo 3. E infatti sembra questa una veduta che, persa l’immediatezza impressionistica del plein air, acquista il fascino della rievocazione vagamente visionaria. In effetti, Seme-ghini soleva fissare in fotografie alcuni dei paesaggi lagunari più congeniali - Burano e il suo Canale della Giudecca, la Casa Incantata, Mazzorbo... - per poi rielaborarli in studio.
Di poco successivo è il luminosissimo Canale di Mazzorbo datato al ’42. La libertà della stesura pittorica sembra contraddire le regole prospettiche, mentre la veduta è stata ricondotta a un’essenzialità iconica mediante un procedimento "per levare". Ed è sempre straordinario il respiro atmosferico, ovvero la qualità solare dell’aria, fra il rosa degli intonaci, i verdi, gli azzurri cerulei.
Fra i più amati da Semeghini è il tema della bimba o della giovinetta seduta, secondo il prototipo della "Pupa", la fanciulla che posava per lui a partire dal 1924-’27. E’ una fragile, appartata sfera di emozioni e memorie, questa in cui vivono le giovani buranelle nei ritratti dell’artista. Un foglio, datato al settembre 1941 in Burano, mostra sul recto e sul verso due disegni, evanescenti ritratti nella serie delle "Buranelle" realizzate fra il 1940 e il ’42. Al fine disegno a graffite si accosta un colore di tessitura esilissima eppure solidamente ordito: è un’immagine eterea, ma indagata da uno sguardo di grande acutezza, che si sofferma con pungente
Mario Disertori
Campi di Primavera a Teolo
1951, olio su tela cm. 73 x 100
analiticità sul volto, di un candore attonito. La figura è compresa in una sigla chiusa, con le mani che stringono il piatto o la mela - l’altro polo cromatico della composizione -, in una compiutezza formale di memoria classica. Per un confronto si veda, fra i tanti esempi, la Bambina con la zucca del 1941, forse la stessa modella di questi disegni. Accanto a loro si può collocare la Fanciulla con melagrana, di raccolta modenese, assimilabile per frangente di stile alla Bambina con giubbetto rosso, datata a Burano nel 1941 di collezione privata. La buranella volge all’esterno uno sguardo ceruleo solo in apparenza diretto, bensì vago e sognante; così come appare vago l’aggallare, dal fondo chiarissimo, della forma immateriale, evocata più che definita. Sovviene dell’espediente, riferito dalla consorte di Semeghini, la signora Gianna, con il quale il maestro eliminava le ombre nei ritratti e nelle nature morte, e cioè collocando accanto ai modelli dei fogli di carta stagnola, che riflettessero soltanto luce. La successiva Torcello, tavoletta del 1950, documenta con la sua delicatezza cromatica l’evoluzione della fase più inoltrata. Sarà appunto questo il Semeghini, evanescente e diafano, che il modenese Tino Pelloni conoscerà nel dopoguerra nelle sue frequentazioni lagunari, facendone oggetto di una riflessione nella sua svolta verso il "chiarismo". Si situa probabilmente agli anni Cinquanta la Natura morta qui esposta, accostabile a un olio come Capriccio del ’55. Gli oggetti, dalle stesure leggere e brillanti, si dispongono nell’estro della creazione su vari piani, che solo in apparenza si scalano nello spazio, ma che piuttosto vi paiono galleggiare, note di colore fluttuanti e non gravate dalla materia. Lo sfondo è l’ocra dorato della tavola di compensato, reso più mobile dalle nervature che così diventano parte della pittura e dell’immagine. E’ una visione labile e svanente; e proprio l’evanescenza delle cose, quella loro qualità attimale, può apparire elemento che accomuna la poetica semeghiniana a quella dei chiaristi. Sul retro l’artista, nella sua consueta economia di tavole, dipinge vari studi di visi, un abbozzo di altra Natura morta, una Fanciulla con bambola, soggetto dipinto ad esempio nel ’40 e nel ’58. Il tutto è su una base bianca, procedimento che ha analogie nel risultato cromatico con gli esiti dei chiaristi. E su una bianca stesura, in un tessuto di sottili pennellate a trama larga è dipinta la Fanciulla con piatto di frutta, con un brano di natura morta sullo sfondo. E’ una chiara pittura che caratterizza anche altre opere rinvenute nel corso di questo studio, come Barene a Burano, del 1950, dove sul sostrato bianco si distendono delicate fasce di verdi, rosati, azzurri; e Canale della Giudecca a Burano, tenuissima veduta in cui s’inarca fra le schiere di case rosate un ponte color smeraldo. "Sono sbarcato a Burano - raccontava Mario Vellani Marchi - per la prima volta nel 1920 con il pittore Augusto Zoboli, e l’impressione che ricevetti fu così grande che continuai negli anni successivi a frequentare l’isola". Poco prima, nel 1919, aveva stretto amicizia con Pio Semeghini. Poi, nel gennaio del 1920, era avvenuto l’incontro con l’ormai affermato Giuseppe Graziosi, che Vellani Marchi avrebbe sempre considerato il suo maestro.
Sono gli anni in cui il linguaggio dell’artista oscilla fra suggestioni post impressionistiche derivategli da Graziosi, con affinità rispetto alla pittura di un altro modenese attivo in Veneto, Casimiro Jodi, e la ricerca di una nuova politezza formale, in una definizione plastica strutturata dal chiaroscuro, che lo vede partecipe degli esordi del "Novecento" nella Milano di Carrà, di Oppi, di Sironi. Nel frattempo Vellani Marchi era ritornato a Burano, questa volta guidato dal "conterraneo" Semeghini che lo introduceva nella casa ospitale di Anna Moggioli, e nel cenacolo di artisti attorno alla celebre Osteria "Tre Stelle" di Romano Barbaro. E’ la scoperta di Burano, con le sue liquide luci, i colori solari degli intonaci, i riverberi sull’acqua, le case dai tipici camini, la sua stessa dimensione di vita. La progressiva immersione nelle atmosfere lagunari condurrà Vellani Marchi verso soggetti quotidiani e domestici, inducendolo a una progressiva "depurazione" formale, in un rinnovato senso della luce e del colore.
"Nel 1930 - rammenta ancora - ritornai a Burano e con me vennero da Milano i pittori Francesco Arata, Giuseppe Novello, Bernardino Palazzi, insomma un poco della "Bagutta" milanese, che come scrisse Umberto Nebbia su "L’Italia Letteraria", si era portata "armi e bagagli" in laguna. Lì fraternizzammo con i pittori che venivano da Venezia e da ogni parte d’Italia: Orazio Pigato, Ferruccio Scattola, Fioravante Seibezzi, Juti Ravenna, Luigi Scarpa-Croce, Carlo Dalla Zorza, Primo Potenza, Guido Tallone, Neno Mori, Renzo Zanutto, Mario Disertori, Giuseppe D’Anna, Leo Masinelli, Silvio Consadori, Moreno Zoppi, Guido Carrer, Mario Signori e molti
Oscar Sorgato
Canale a Mazzorbo,1935
olio su tela cm. 29,5 x 39
altri...". D’altro canto, proprio Venezia costituiva una finestra aperta sull’orizzonte dell’arte europea: da Seurat a Matisse, da Marquet a Van Dongen a Kokoschka..., le opere dei grandi comparivano nelle Biennali, suscitante dibattiti e confronti.
Nella selezione dei dipinti di Vellani Marchi in mostra, L’orto grande a Burano del 1936 inquadra uno scorcio colto dalle finestre di Casa Moggioli ripreso da vari pittori, probabilmente in una sorta di emulazione: da Semeghini nel ’23, in Orti a Mazzorbo da Casa Moggioli, da Carlo Dalla Zorza nella sua Burano in primavera, del ’43, donata dall’autore a Romano Barbaro. Si respira tutto il fascino della pittura en plein air in questa tela di Vellani Marchi, vicina per impaginazione alla Primavera nell’orto grande del ’34, esposta alla III Quadriennale Romana del 1939. Da un osservatorio sopraelevato, l’artista passa dai primi piani densi di vegetazione a una panoramica dal taglio obliquo, protendendo la visione sino ai più remoti lembi di terra sull’orizzonte, in uno sguardo amplissimo nella luce azzurrata del mattino. Tratteggiato quasi di getto è l’inedito Canale della Giudecca a Burano, del ’39, che palesa nella cifra dei contorni le doti di eccellente disegnatore proprie di Vellani Marchi. Un’aura mattinale illumina anche un’altra inedita tavola, dove sembra affiorare una qualche suggestione da I tetti rossi di Pissarro (Parigi, Musée d’Orsay): Orti a Burano, del marzo del ’43. In fondo alla distesa ortiva si profilano le case con le emergenze dei camini e del campanile di S. Martino, nella medesima visuale di Primavera nell’orto, e di Primavera a Burano, entrambe del ’37. Tramonto autunnale a Mazzorbo del ’41 mostra una tavolozza accesa di toni rossi, ocra, aranciati, che pare contraddire la malinconia della natura in quel periodo dell’anno. La stessa veduta, fissata almeno in altre due occasioni, nel ’38 e nel ’44, diviene scenario del trascorrere delle stagioni in quelle isole d’incanto. La ripresa di uno stesso tema vedutistico, in cui ritrarre il variare dei colori e delle luci, sembra voler recuperare l’attitudine allo studio atmosferico-luministico già degli impressionisti. Si sono volute accostare, di Vellani Marchi, due tele d’analogo soggetto, una merlettaia buranella intenta al lavoro, l’una del ’39, l’altra del ’43. E’ un argomento spesso trattato dall’autore, e caro anche a Semeghini, sempre in un’aura sentimentale attorno a queste miti presenze femminili, colte nei gesti quotidiani; accanto a loro, si scorgono elementi che evocano un’intimità domestica, come una brocca, una specchierina basculante, un’immagine sacra... Nei due dipinti molto simile è l’impaginazione compositiva, ma ben diverso è il tratto di stile: la Merlettaia del ’39 possiede una cromia tenuissima e straordinariamente luminosa, dove, annullate le ombre, le zone di colore sembrano fiorire nella luce bianca. Si manifestano così le suggestioni di certa rischiarata pittura di Semeghini; e al tempo stesso è avvertibile il riflesso del milieu del chiarismo lombardo. Nella Merlettaia buranella del ’43, si effonde invece un pittoricismo più sciolto, un compiacimento cromatico nella rinnovata attenzione ai modelli di Bonnard.
Un ricordo di Leo Masinelli a Burano è restituito dall’amico Carlo Dalla Zorza: "Burano, la casa ospitale e serena della signora Moggioli, la tavola conviviale di Romano trattore ed amico, quattro o cinque pittori matti-per-la-pittura e un paesaggio intorno stupendo, unico, di acque di cielo e di irreali case e di vigne. Masinelli era del gruppo e la sua migliore formazione di paesaggista è proprio di quegli anni...". Fra le prime opere di Masinelli nella sua lunga stagione lagunare, il Canale della Giudecca a Burano del ’42 è ancora vincolato ai modi di Graziosi, mentre l’impegno prospettico e la relativa finitezza del pennellare conservano un sentore tardo ottocentesco, alla Guglielmo Ciardi. E’ un lessico che possiede una propria affascinante poesia, e costituisce la radice su cui s’innerverà la successiva evoluzione, maturata sugli esempi di Semeghini e Vellani Marchi.
La Bimba buranella con mela - tipica iconografia semeghiniana - che Masinelli esegue nel ’45 è accostabile, per vena intimistica, alle merlettaie di Vellani Marchi, ma con un senso della materia e una definizione formale rapportabili ad autori novecentisti, in particolare a Felice Carena, altro estimatore di Burano benché non partecipe, dal profilo stilistico, della sua Scuola. Infine, la Natura morta del 1949 si attesta su una gamma mediata da Semeghini, sui toni ocra e arancio, resi più smaglianti dall’accostamento dei toni freddi complementari. Composizione di memoria cézanniana, sembra quasi disfacersi nella qualità morbidamente amalgamata del colore.
Forse ancor più che a Semeghini o a Moggioli, è a Gino Rossi che Carlo Dalla Zorza deve il sentimento del colore e il suo uso svincolato, liberamente canoro. E’ una pittura sciolta e sfogata, come in Burano del maggio 1943, dove il
Carlo Dalla Zorza
Burano, 1943
olio su tela, cm. 40 x 60
pennello corre con ampio gesto, fermando con naturalezza la stessa sostanza dell’aria, intrisa di luci e di colori, i colori della primavera. Stupisce la gamma brillante della tavolozza, con lo squillo dell’arancio accostato all’azzurro, suo complementare. Invece, Burano in settembre, del ’45, reca nella scelta cromatica la percezione della variabilità autunnale. Dalla Zorza ha evidentemente assimilato, anche tramite la personalità di Gino Rossi, sia la lezione degli impressionisti che quella di Cézanne, sviluppando le potenzialità del colore sulla scia dell’espressionismo. Si assiste, in questa tela, a quella "vibrazione del segno" in cui Rodolfo Pallucchini individuava l’apporto dell’artista al linguaggio della Scuola di Burano; una sigla che qui s’invera nel ritmo dei rami e dei viticci degli orti buranelli. Al 1946 si data La sciarpa arancione: una bimba è seduta in posa nello studio del pittore, di cui s’intravedono alle pareti le opere, rivisitando l’antico motivo del "quadro nel quadro", con un’autocitazione precisa nel paesaggio con ramaglie dietro la modella. Il timbro intimistico ha reminiscenze da Bonnard, mentre si pensa a Matisse e ai fauves per la vigorosa eloquenza del colore: l’alta nota d’arancio accende l’opera di luminosità, richiamando l’attenzione sullo sguardo della bimba, unico elemento fermo dell’immagine, poiché le linee dello sfondo e la stessa posa della figura rimandano a una condizione d’instabilità, come di scivolamento verso l’esterno. Nel 1946, l’anno di questo dipinto, Dalla Zorza vince il Premio Burano per la pittura di paesaggio, alla sua prima edizione, mentre il secondo premio va a Umberto Lilloni, come a riconoscere un’affinità di sentire fra la cerchia lagunare e il chiarismo lombardo.
Nella Venezia del secondo quarto del ’900, personaggio emergente è Fioravante Seibezzi, definito "il maggior rappresentante, forse, del vedutismo "chiarista" e impressionistico di quegli anni". La sua Laguna veneta del 1951, con uno scorcio della Malcontenta, è trasparente visione fra acque e cielo, accomunati dalle stesse vibrazioni luministiche e tonali. La fluidità di conduzione è simile all’Orto lagunare del 1952, presentato alla Biennale di quell’anno (Venezia, Collezione della Cassa di Risparmio di Venezia). In questa Laguna veneta si direbbe che l’autore rammenti certi episodi settecenteschi di Francesco Guardi come la Torre di Malghera (Londra, National Gallery), espressioni di un vedutismo puro, dove una pittura tonale restituisce l’azzurro respiro dell’atmosfera. Nel dipinto di Seibezzi, a definire le lingue di terra e le case sono tratti di scuro colore che costituiscono, nel suo lessico figurativo, un’inflessione calligrafica pur nella liquidità del pennellare. Opere del suo catalogo come Venezia del 1926, o la Riva degli Schiavoni del 1928, o il Nudo del 1929 palesano questa pittura di tocco, che rileva dalla più larga stesura i contorni e le figure in movimento, in una soluzione tecnico-stilistica di forte impatto espressivo. E’ una sigla che, con ovvie varianti, si rinviene anche nei dipinti di Juti Ravenna, come Piazzetta S. Marco, vivacissima tavola dalle influenze fauves databile verso il 1934, anno in cui fu esposta alla Biennale; e la si ritrova anche nel linguaggio di Filippo de Pisis in epoca successiva al suo soggiorno veneziano del ’29, quando, ospite di Juti Ravenna, aveva occupato uno studio a Palazzo Carminati, accanto a quello di Sei-bezzi.
Accanto a Dalla Zorza, Vellani Marchi, Seibezzi e agli altri di Burano, opera il trentino Mario Disertori. L’impronta della cerchia veneziana e in particolare di Moggioli contraddistingue la sua produzione, incentrata sul tema paesaggistico. Sin dai tempi di Arsura, olio del 1926 (Roma, Collezioni del Quirinale), uno dei caratteri ricorrenti del suo stile sono i profili a linee scure continue, riprendendo un motivo chiave della pittura di Moggioli, il quale lo aveva a sua volta derivato dal primitivismo nabis, in un linearismo bidimensionale dall’effetto cloisonné. Campi di primavera a Teolo, tela del ’51 esposta in quell’anno alla Mostra del Triveneto a Padova, riferisce la capacità di Disertori di rendere il senso della mobilità dell’aria e della meteorologia. E’ una solare veduta a volo d’uccello della zona di Teolo e dei Colli Euganei, in cui egli compiva lunghi soggiorni, come prima Moggioli, e poi l’amico Dalla Zorza fra gli anni ’50 e ’60; e forse Disertori vi ritrovava le stesse emozioni di Dalla Zorza, "i colori e soprattutto l’atmosfera idillica che era prerogativa di Burano nei primi tempi...". Nel dipinto i prati, i coltivi, le colline, i monti si succedono con effetto non tanto prospettico, bensì a fiat, mediante variazioni cromatiche, secondo un modulo che torna anche in Aprile sui Colli del ’65 (Padova, Collezione d’Arte della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo), riprendendo i morbidi contorni di quelle terre. "I Colli Euganei di Mario Disertori diventano un paesaggio di anima - osservava Diego
Leo Masinelli
Bimba buranella con mela. 1945
olio su tavola, cm. 56 x 48,5
Valeri -, un mondo infinito infinitamente mutevole dentro i suoi fermi contorni e nettissimi profili".
Fra i "ritrovamenti" nel corso di questo studio vanno segnalati tre dipinti del modenese Oscar Sorgato. Presenza assidua alle rassegne milanesi, con partecipazione a due edizioni della Biennale di Venezia, fu figura di spicco della tendenza "chiarista". Scomparso a Milano a soli quarant’anni, Sorgato ha rare citazioni nell’odierna storiografia, fra cui quella di Elena Pon-tiggia nel catalogo sul chiarismo milanese e mantovano negli anni ’30, che lo menziona fra "gli artisti ora dimenticati". Di lui erano noti soltanto due ritratti femminili, la Modella in nero del ’36 e il Ritratto del ’40, esposti alle Biennali di quei rispettivi anni. Se il primo evidenzia lo studio della pittura di Modigliani, con una lievità quasi fluttuante nel brano delle mani, da richiamare la stilizzata leggerezza di certe donne di Lilloni, il secondo, che indugia nella puntualizza-zione chiaroscurale e nello stacco dei vari piani, sembra orientarsi verso il Novecento di un Carena. Il primo dei tre quadri rinvenuti, Pescatori che giocano a carte del ’33, evidenzia da un lato suggestioni da Cézanne, d’altro lato esprime un "primitivismo", nella dichiarata semplificazione compositiva e nella sommarietà dello sfondo, che poteva incontrare l’approvazione di Edoardo Persico; mentre si poneva in parallelo con opere come L’ebreo di De Rocchi, databile attorno al 1929. E a proposito di "primitivismo", nella Milano dei primi anni Trenta Sorgato doveva aver riflettuto sul filone espressionistico di Tullio Garbari, quello del S. Cristoforo esposto alla Galleria Bardi nel ’30. La sintassi compositiva conserva un ricordo del fraseggio di Ottone Rosai, che nel novembre del ’30 aveva tenuto una personale in quella Galleria, non più Bardi ma del Milione, diretta da Persico, che costituì per i chiaristi un polo espositivo di primaria importanza. Nei Pescatori, benché il colore sia risentito e vigoroso - la dominante ocracea è ottenuta lasciando trapelare il supporto -, i contorni scompaiono nelle maglie bianche degli uomini, e le sagome si appiattiscono; il tavolo, reso prospetticamente nello spigolo esterno, perde in profondità la sua connotazione strutturale. Lo stesso taglio conferisce un’impronta instabile, un senso di precarietà alla scena.
Furono opere come il successivo Canale a Mazzorbo, dipinto a Burano nel 1935, a includere Sorgato nel novero dei chiaristi. E’ di quell’anno la sua partecipazione alla IV Sindacale Lombarda, presso la Permanente di Milano, ove espone a fianco di Lilloni, Del Bon, De Rocchi, Spilimbergo, Birolli, Sassu.... Va intanto imponendosi la nuova poetica che, proprio nella recensione di quella mostra su "L’Italia Letteraria" dell’11 maggio, a firma di Leonardo Borgese, critico e saggista nonché pittore, verrà per la prima volta definita col termine di "chiarismo": "Sorgato come molti altri di qui sta orientandosi verso una pittura chiara e leggera - vi rileva Borgese - i cui inizi vanno in buona parte ricercati, oltre che in Matisse naturalmente, anche nelle opere di Semeghini grande in-fluenzatore di veneri e di lombardi". E il Canale, liquida visione dalle ombre azzurrine, rivela appunto il debito verso Semeghini, specie in quel "levare" particolari e presenze accidentali, a favore di una depurata chiarità; ma soprattutto, vi si esprime un sentimento di solitudine solenne fra acque e cielo, in un discorso d’altissima poesia. S’avverte un ricordo della tenue grazia di De Rocchi e Del Bon in Venezia da piazza San Marco, che Sorgato dipinge nel ’36, nella giornata del 14 settembre. Il ductus è quanto mai libero e vario, ora di tocco, ora denso di colore, ora strisciato e di magra stesura, tanto da lasciar trasparire il veloce disegno a carboncino. Le tonalità sono quelle dei rosa e dei grigi lucenti, nelle gamme della madreperla. Il pennello evoca un Palazzo Ducale aereo e traforato, le colonne sottili e leggere, l’isola di S. Giorgio all’orizzonte, apparizione eterea, di sogno, come destinata a dissolversi. La personalità di Sorgato appare "trasversale" rispetto alle esperienze del chiarismo lombardo e della Scuola di Burano. Risulta infatti che egli alternasse la residenza a Milano con lunghi periodi sulla laguna e a Venezia. Ma soprattutto è il dato di stile che lo assimila ai pittori di Burano, a Semeghini, come colse Borgese, e a Seibezzi in primis: i tocchi di pennello blu e neri di questa Venezia sembrano richiamarsi a quella sorta di "scrittura" che s’è visto esser tratto distintivo dei modi di Seibezzi.
L’anno 1935, quello stesso in cui Borgese inventa il fortunato termine "chiarismo", cade nel periodo più vitale e propizio per la corrente lombarda. La vicenda biografica di Angelo Del Bon registra, nel ’34, l’affermazione alla Sindacale lombarda, dove s’aggiudica il Premio Principe Umberto per il suo famoso Schermidore". E’ in tale felice frangente che dipinge questa veduta del Lambro a Monza,
Mario Vellani Marchi
Il Canale della Giudecca a Burano, 1939
olio su tavola, cm. 40 x 50
datata al ’35. E’ una pittura "ingenua", come l’amava Persico, ma al tempo stesso sapiente, che riduce le presenze a leggere superfici di colore luminoso, dai rosa della chiesa e del campanile agli azzurri dell’acqua e del cielo, ai verdi che sfumano nel giallo e, al centro, il biancore abbagliante dell’arcata esile del ponte. Una simile cromia, più soffusa verso le lontananze, è affine a quella di vari saggi di Semeghini, che proprio allora, dal 1929 al ’39, vive il suo periodo lombardo insegnando a Monza.
L’altra opera di Del Bon in mostra è un Nudino seduto del 1942, che fu esposto alla Galleria dell’Annunciata a Milano, luogo storico per i chiaristi, aperta nel ’38 da Bruno Grossetti, che di Del Bon fu il primo mercante.
Il Nudino sintetizza suggestioni dall’espressionismo nordico, ma anche ricordi dalla tradizione lombarda, dal Piccio a certa pittura di Daniele Ranzoni, quella ad esempio della Giovinetta in bianco, nella Galleria d’Arte Moderna di Milano. Sorprende la tenerezza rosata di questo nudo su cui le ombre si traducono in delicati azzurrini. Allo scuro contorno del fianco destro si giustappone il battito leggero della luce proveniente da sinistra, che sfuma la figura sullo sfondo, fra toni perlacei. Il cuscino rosa su cui la donna è seduta sembra scivolare, ribaltandola così in primo piano, senza spessore e senza prospettiva. Ne sortisce un effetto di instabilità, un sentimento di inadeguatezza esistenziale che sono propri della poetica chiarista, in aperta contrapposizione rispetto all’asser-tività formale del Novecento di Sironi, Funi, Oppi, Casorati.
Una coloritura esistenziale possiede anche l’opera di Francesco De Rocchi, dove talvolta affiora una vena sottilmente malinconica. La Chiesa di Vegno del ’44, qui esposta, è irradiata da una luminosità aurorale. La luce riacquista il suo significato simbolico: ridiviene cioè metafora di uno stato di grazia, di una ritrovata purezza. In un autunno incantato di colori e di luci mobilissime, la chiesa con l’alto campanile - semplificata fino a divenire immagine geometrica - si eleva dal colle al cielo, all’aprirsi di due pendici montuose; ma non nel baricentro compositivo, bensì appena decentrata, creando un senso di lieve ma insinuante squilibrio. E’ la poesia della solitudine, vissuta in uno stato d’animo contemplativo, nel quale tuttavia s’insinua un che di indefinibile, di sfuggente. Gladioli e ortensie, del 1944, esterna quell’intimismo che alimenta molte pagine di De Rocchi, nel ricordo delle atmosfere di Bonnard e Vuillard. Un intimismo che s’esprime in un colore "lirico", che svaria su timbri azzurri, verdi, grigi con riflessi d’argento, e si stempera in una morbidezza sfumata, assumendo un’inflessione evocativa. Anche per la sua fragile grazia, vi si potrebbe leggere una reinterpreta-zione della Vanitas, il tema d’ascendenza fiamminga della caducità della bellezza e dell’esistenza stessa, simboleggiato da una natura morta i cui fiori sono destinati ad appassire; e un simile messaggio ben rientrerebbe nella poetica chiarista, che reca in sé il sentimento dell’attimo che fugge. Venezia è uno dei soggetti più congeniali a De Rocchi, per la straordinaria ricchezza di riflessi, di bagliori, di trasparenze. De Rocchi predilige piazza S. Marco, o meglio la sua piazzetta, con le due colonne di S. Teodoro e del Leone, "quella piazzetta che, dissolta in una nube di vapori, racchiude tra architetture di luce la visione del mare, il miraggio dell’infinito". La Piazza S. Marco del 1952, qui esposta, è vibrante armonia d’azzurri, di bianchi, di grigi punteggiati da tocchi di giallo e di arancio. La pennellata si frammenta e si frange, preludio degli sviluppi puntinisti che connoteranno la pittura più inoltrata dell’artista. Miraggio sontuoso e fiabesco, se da un lato può rammentare le Cattedrali di Rouen di Monet, d’altro lato appare svincolato da osservazioni atmosferiche: possiede infatti la qualità evocativa della visione mentale, nelle forme e nei colori della poesia.
"La pittura di Umberto Lilloni ha analogie con la favola", scriverà Emilio Radius nel ’39, in occasione della personale alla Galleria Grande a Milano. E Guido Piovene, recensendo quella mostra, riutilizzerà il termine "chiarismo", coniato da Borgese nel ’35, per esprimere la qualità della cromia e l’immaterialità di quella pittura. Nella sua ricerca, Lilloni attinge al calligrafico lirismo dell’arte orientale, giapponese in particolare, ma anche, si crede, ai minuti grafismi della pittura a tempera e a guazzo fra Sette e Ottocento, come quella di Giuseppe Bernardino Bison. Dato saliente della pittura di Lilloni è la luce; luce di purezza non soltanto atmosferica, ma anche interiore, anzi "morale" e trascendente, come l’intendeva Persico. Così nell’olio del ’48, Bosco a Fenolo, sul Lago Maggiore, dove i verdi dai riflessi di smeraldo s’impreziosiscono per il contrappunto festoso dei gialli, degli ocra, degli arancio; così anche Bosco sul mare, del 1952, che comparve sulla
Pio Semeghini
Canale di Mazsorbo, 1942
olio su tavola, cm. 29.3 x 41
copertina della rivista "Notizie d’arte" di Giuliano Modesti. E’ una natura intravista attraverso lo sguardo dell’artista, illuminata da una primeva infantile freschezza. Ma quello sguardo istantaneo ha carattere attimale, così come è effìmera l’essenza delle cose. Ecco il fascino della pittura di Lilloni: come scrive Elena Pontiggia, "un’aspettativa di felicità incantata e disincantata al tempo stesso".
Si è inoltre reperito in raccolta privata modenese un dipinto su carta, intitolato Malmo, acquistato dalla personale che Lilloni tenne a Modena, alla Saletta degli Amici dell’Arte, nel maggio del ’50, con una serie di Vedute nordiche relative al suo viaggio in Svezia del 1949. In questo parco, riflesso in uno specchio d’acqua, brilla una luce alborale propria del Nord, ma anche della poetica di Lilloni, che smaterializza il paesaggio in visioni liriche, dai soffici tocchi di verde e d’azzurro.
Sono vedute dell’Engadina i dipinti che si presentano di Adriano di Spilimbergo. Guardando un’opera come Saint Moritz del ’59 - una selva di conifere che sembra un bosco di fiaba, un lago traslucido come una lastra d’argento, cime innevate che paiono cristalli - ben s’avverte la radice "neoromantica" del chiarismo: è un sentimento panico, d’immersione nella natura, fisica ed emozionale, in cui l’uomo, come in un dipinto di Friedrich, di fronte a tanta grandiosa bellezza, una bellezza assoluta, avverte tutta la propria fragilità.
Un’alta quiete domina quest’Autunno a Saint Moritz, forse soltanto variata dal fluire dell’acqua del torrente, accennato da radi tocchi di colore più chiaro, su una superfìcie smaltata d’azzurro turchino. Vi si legge lo studio delle stampe giapponesi, oggetto di appassionata attenzione presso i chiaristi milanesi per la delicatezza del tratto e il peculiare bidimensionalismo; e ancora, per la percezione lirica della natura, e il senso della transitorietà, che sono stati d’animo anche di Spilim-bergo, trasposti nelle sue tele. Ritornano le suggestioni dei grafismi orientali in Fiorì sul davanzale: negli azzurri cristallini dell’Engadina, i petali brillano come preziose gemme di colore. Per inciso, questa pittura di tocco, ma leggero e appena posato, non può non aver colpito il modenese Pelloni, che nei fiori di Spilimbergo ha certamente rinvenuto potenzialità espressive per la sua pittura di formalizzante lirismo.
Negli anni Venti-Trenta Tino Pelloni aveva raccolto nelle sue opere l’eredità tardo ottocentesca, all’insegna di volumi ben definiti, di contorni sigillati, di un pittoricismo sensuoso dai colori smaglianti sul fondo scuro, come nella natura morta Abbondanza del ’29, dal codice figurale neoseicentesco; un’esuberanza cromatica che gli era stata trasmessa da Gaetano Belici, suo maestro presso l’Istituto d’Arte modenese. Simili valori erano ampiamente condivisi, anche in ambito locale. Fu allora che Pelloni volle distaccarsi da quello stile dominante e, come già i conterranei Vellani Marchi e Masinelli, si orientò verso una ricerca atmosferica, verso la solarità di Burano, che iniziò a frequentare negli anni ’40.
Fu soprattutto l’incontro con Pio Semeghini e con l’ultima maniera della sua pittura, a base chiara, a sostenere Pelloni nella sperimentazione di un nuovo linguaggio, qui esemplificato da tre tele scalate dal 1953 al ’55: Case di Burano, Mazzorbo e Visione di Venezia. Al tempo stesso, avvenne la svolta tecnica: "trovai una mestica - riferisce lo stesso maestro - che stesa sulla tela assumeva le caratteristiche di un intonaco, porosa scabra e leggera a un tempo". Come supporto, Pelloni sceglieva una tela grezza, dapprima di juta, poi di lino o misto lino; la fissava su un cartone rigido e la intrideva di acqua di colla. Sulla tela così irrigidita, con una larga spatola stendeva la pasta, composta da gesso e olio cotto, una goccia d’acquaragia e un pizzico di biacca in polvere, mescolata fino a renderla perfettamente liscia, con un aspetto traslucido. Su questo strato di pasta, il più uniforme possibile, procedeva a disegnare con il carbone; poiché il carbone era friabile e volatile, il disegno era "fermato" con una tinta unica, un rosa pallido, come anticamente si usava nella tecnica dell’affresco, realizzando una sorta di sinopia. Qualche colpo di carbone si sarebbe incorporato nella pittura, altro sarebbe riaffiorato, accanto al pigmento. Pelloni iniziava a dipingere stemperando il colore sulla tavolozza e applicandolo senza correzioni; al più, interveniva con la carta vetro o con la lametta per togliere l’eccesso di colore. A lavoro ultimato, staccava la tela dal supporto e la incollava su un cartone. Questa tecnica, con l’utilizzo di scarsa acquaragia e la stesura di striscio di un colore quasi asciutto, dava origine a un effetto ad affresco. Questa ricerca imitativa dell’affresco accomuna Pelloni a vari chiaristi. Sin dagli anni intorno al 1930 Birolli era solito dipingere su una base di bianco ancora fresco, come in un encausto. Un procedimento fatto proprio
Lilloni
da Del Bon - probabilmente sulle orme di Birolli - che lo adottava ai primi degli anni Trenta, in parallelo con il recupero della tradizione della pittura murale.
Come Del Bon, De Rocchi, De Amicis e altri chiaristi, anche Pelloni mira a esiti antivolumetrici, all’insegna della bidimensionalità; le sue figure emergono nel chiarore con una levità che è rifiuto dei valori plastici e del chiaroscuro, e che invece è tensione nel cogliere l’essenza più intima, e forse più intellettuale, delle cose. I fiori di Pelloni, come i Garofani qui esposti, sono apparizioni di grazia non gravata da ombre, sul biancore assoluto del fondo che conferisce all’immagine un carattere d’astrazione. Non si può non richiamare, a tale proposito, certi esiti di Adriano di Spi-limbergo, in un orientamento di gusto che accomuna l’artista modenese ai chiaristi lombardi. D’altro canto, Pelloni seppur saltuariamente frequentava l’ambito lombardo. A Milano, poco dopo la sua conversione al chiarismo databile sulla metà degli anni Quaranta, tenne personali alla Galleria Bergamini nel ’49, e alla Galleria Gavioli nel ’53. E nel settembre del ’62 allestiva un’altra personale alla Galleria Ghelfì di Verona, alla cui inaugurazione era presente l’amico Semeghini. La consacrazione di Pelloni come "pittore di luce" è legata alla memorabile mostra presso la Casa dell’Arte a Sasso Marconi, nell’inverno 1982-’83, ove le sue opere comparvero accanto a quelle di Del Bon, De Rocchi, Lilloni, Spilimbergo, Dalla Zorza, Semeghini, Seibezzi...
Un altro modenese, Augusto Zoboli, lega lunghi tratti del suo itinerario alla laguna veneta. Nel 1919 compie una visita a Venezia accompagnato dall’amico Vellani Marchi. Da allora soggiorna spesso sulla laguna, tanto da venir incluso fra gli autori che hanno risentito di quelle suggestioni cromatiche. Per Zoboli, l’influsso della pittura "di luce" è da rinvenirsi negli episodi di più acuita sensibilità ai valori atmosferici, colti en plein air, in una tavolozza chiara e soleggiata. Così nella tela In giardino del 1972, riedizione della conversation piece, dove un gruppo di famiglia si raduna attorno al tavolo approntato per il the, nel parco di una villa nella campagna modenese, sullo sfondo lontano degli Appennini. L’opera, forse ispirata alla Colazione in giardino di Monet (Parigi, Musée d’Orsay), appare di qualità freschissima, anche per la sua esecuzione di getto, nel breve arco di un paio di giorni. L’intonazione dominante dei verdi e degli azzurri si fa più intensa per il contrappunto delle note rosse e rosate negli inserti floreali, mentre sul biancore della tovaglia s’allargano ombre azzurre, create dal battito del sole pomeridiano.






2005-03-29


   
 

 

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