E più che logico chiedersi come sarà l’esistenza di noi tutti dopo che sarà scomparso ovvero che avremo vinto la battaglia contro il coronavirus. Due sono gli interrogativi e le presunte certezze che emergono per il dopo. Da una parte riscontriamo il desiderio di voler tornare alla normalità e dall’altro la sensazione che nulla sarà più come prima. Queste due aspirazioni/certezze inducono a qualche riflessione. Tornare alla normalità, l’auspicio prepotente di gente e popoli diversi, presuppone il poter riprendere la propria esistenza come al tempo pre-covid, vivere cioè la propria vita ripristinando regole, atteggiamenti, contatti, funzioni esattamente come facevamo prima di essere colpiti dall’epidemia. Si tratta di un desiderio ovviamente legittimo che si riscontra nell’umanità ogni volta che è stata colpita da unevento eccezionale e tragico. Ma nel caso specifico cosa significa in realtà? E in specie per quanto riguarda il nostro paese? La normalità ante coronavirus vuol dire vivere in una società dominata dall’egoismo e dalla disuguaglianza, che ignora il merito e le qualità dei singoli; essere confinati in città invase da veleni e costretti a svolgere lavori in fabbriche tossiche e insicure; essere governati da una classe dirigente ignorante e presuntuosa, da istituzioni burocratizzate e incapaci di svolgere anche pratiche elementari; essere in balìa di gruppi malavitosi senza scrupolo, con i giovani costretti, nel migliore dei casi, ad un precariato senza fine, e con una popolazione che decresce costantemente anche senza l’epidemia per l’evidente impossibilità di creare nuove famiglie. Se davvero questa deve essere l’auspicata normalità c’è da dubitare che questa sia anche unaprospettiva da desiderare ardentemente. Certo vivere è meglio che morire ma l’occasione della pandemia dovrebbe anche aprire spiragli diversi, suggerire nuovi orizzonti. Gli orizzonti che possono nascere proprio quando si sostiene (o soltanto si auspica) che nulla sarà più come prima. Ma qui forse s’innesca la suggestione più caratterizzante, proprio perché, se tutto deve cambiare, sono proprie le “prerogative” prima richiamate a dover sparire , cedere il passo ad un nuovo “destino”. Ovviamente si sogna sempre in grande, ma in questo caso si potrebbe anche auspicare una “piccola” rivoluzione civile: smettere di raccontare frottole socio-politiche ed avere il coraggio di dire la verità anche mostrando, quando occorre, i propri limiti; abbandonare i teatrini televisivi dove immarcescibili truppe perennemente assoldate dai soliti “tycoon” se la suonano e cantano come si fa al bardello sport. Vorremmo vedere cioè e sentire anche gli “altri” che sono davvero tanti e che hanno storia e storie da raccontare; vorremmo che i giovani tornassero ad animare una scuola di vita vera, dove la cultura la faccia finalmente da padrona al di là di sterili, usuali proclami e slogan privi di fondamento; ameremmo veder proteggere davvero le fasce più deboli e bisognose con spirito solidale e non dover più leggere lettere d’addio alla vita come quella dell’avvocato “sepolto” nella RSA dove “gli addetti nemmeno ti salutano”; essere destinatari di una giustizia equa per tutti; vivere in una democrazia non “imposta” dai decreti di urgenza ma fondata sul primato legislativo del parlamento. E’ questo forse un sogno irrealizzabile ma può (deve) anche rappresentare la sfida più affascinante. In un romanzo che è stato richiamato più volte nei giorni dell’epidemia,il capolavoro di Albert Camus, “La peste”, il protagonista ci lancia un monito da cui dovremmo trarre conforto e saggezza: “Mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazioni per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo mi interessa”. Antonio Filippetti |