Nella società globale quello della comunicazione è sicuramente un problema cruciale, fondamentale in ogni caso per intendere diversità e difficoltà sia in termini esistenziali che socio-politici. Il che nasconde, a ben riflettere, una contraddizione di fondo, poiché proprio laddove si auspica una società aperta e partecipativa, universalmente comprensibile e condivisa, si determina viceversa una condizione di sostanziale incomunicabilità con esiti talvolta deleteri. E’ noto, infatti, che ciascun gruppo ha strutturato un suo particolare linguaggio, comprensibile all’interno del “clan” ma assai poco fruibile al difuori della cerchia di “appartenenza”. I giovani, tanto per fare un esempio, hanno un lessico tutto funzionale ai propri stili e atteggiamenti di vita che non sono riscontrabili nelle generazioni più adulte. Ma non è soltanto un problema generazionale. Se prendiamo in considerazione il gergopolitico, ci accorgiamo quanto sia incomprensibile per chi sta fuori dalla cerchia il significato di alcune parole (e quindi delle azioni). Il politichese ha una sua ragion d’essere tutta interna ai gruppi che lo praticano e non è digeribile dalla massa dei comuni cittadini. Tuttavia una delle considerazioni più amare consiste nel dover certificare il degrado della nostra lingua, una deriva che conduce ad approssimazioni e banalizzazioni sconcertanti. In primis l’uso di termini stranieri, inglesi nella quasi totalità, usati non soltanto a sproposito ma senza effettiva necessità, visto che esistono gli equivalenti italiani ben più comprensibili a tutti. E in questo senso si sta impegnando anche l’Accademia della Crusca per porre un argine a questa insana deriva e ripristinare se non altro un ordine lessicale che appare sempre più inquinato da “parlate” gergali non di rado prive addirittura di significato. Il guaio è che ormai è diventata una moda corrente come quella dideclinare, ad esempio, in un latino maccheronico termini di uso comune: porcellum, rosatellum, matterallum, consultellum, “schifezzellum”. Sulla scia di altre declinazioni massificate con il suffisso poli, tipo tangentopoli, calciopoli, vallettopoli, concorsopoli, premiopoli, ecc.ecc. Una comunicazione sciatta e approssimativa tende a limitare le peculiarità e le differenze linguistiche uniformando in un unico calderone un “significato” trasmesso a buon mercato. E così facendo viene messo sempre più in disparte l’uso della “vulgata” locale, i cosiddetti dialetti che traducono l’humus di un popolo e una terra. Il che contraddice la richiesta che da più parti avanza di maggiore autonomia locale e conferma semmai la schizofrenia non solo linguistica con cui sembra muoversi e orientarsi la società civile che per comunicare ha bisogno per così dire dei “sottotitoli”. Sia come sia, il risultato patente è che la lingua dicasa nostra, quella di Dante e Leopardi, se la passa ora davvero male tanto più che le istituzioni preposte (scuola, università. ecc.) sembrano fare ben poca azione di contrasto quando non appaiono esse stesse in preda ad un imbarbarimento senza vie di uscita. Antonio Filippetti
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