ANTONIO LIGABUE
 






Pavia, Scuderie del Castello Visconteo
Dal 17-3-2017 al 18-6-2017




Dalla gola della tigre
Per anni la valutazione dell’opera di Antonio Ligabue è stata fuorviata e immiserita dalla definizione di “naïf”, cui è stata associata, più di recente, quella di artista indelebilmente segnato dalla follia – etichetta che ancora affascina e sollecita una qualche morbosa curiosità. Perché si sia insistito così a lungo in queste linee interpretative non è solo spiegabile con una scarsa tensione a distinguere, all’interno del troppo vasto, e spesso assai poco interessante, mare magnum della cosiddetta arte naïve, e con un desiderio a semplificare, a incasellare ogni esperienza, pur assolutamente singolare, ma anche dalla convinzione che “naïf” e “folle” fossero etichette che potessero meglio solleticare l’interesse dei potenziali visitatori di una mostra di Ligabue. La definizione di “espressionista tragico”, che adottammo nel 2005, in occasione della grande mostra antologica al Palazzo Magnani di Reggio Emilia e al Palazzo Bentivoglio di Gualtieri, ci sembra tuttora la più rispondente ai caratteri dell’opera dell’artista. Del resto, già nel 1957, Roberto Tassi, recensendo la mostra di Antonio Ligabue (e di Bruno Rovesti) alla Galleria del Teatro di Parma, sosteneva che “può certo sollecitare l’entusiasmo l’interpretazione di Ligabue come ‘caso’ di candore pittorico, ma rimane sempre un’amplificazione letteraria, intellettualistica” e che non poteva essere troppo lontana dal vero l’ipotesi che Ligabue si fosse “imbattuto in qualche ‘autoritratto’ di Van Gogh e in qualche ‘paesaggio tropicale’ di Rousseau”, conservandone poi profondamente la memoria, giacché Ligabue rivela, sempre secondo Tassi, “una forza pittorica non comune” – è naturale associare l’Autoritratto con spaventapasseri, del 1955-1956, alla memoria di qualche opera di van Gogh. Nel 1975, dieci anni dopo la morte dell’artista, Attilio Bertolucci si augurava, in occasione della prima, grande mostra antologica al Palazzo Bentivoglio di Gualtieri, che finalmente potesse finire il periodo in cui l’artista era stato “chiuso nel ghetto (o nel lager) dei naïfs”; nello stesso testo, il poeta parmigiano avanzava l’ardita, all’epoca, considerazione che da Rousseau avesse “imparato non poco, ad esempio, un artista del rigore stilistico di Morandi”, soprattutto in “certe nature morte con fiori, certi angoli di paesaggio”. Per Bertolucci Ligabue è un pittore e uno scultore “diverso”, che ha adottato un linguaggio “mutuato non dall’accademia ma dalla brulicante e sanguigna Europa in cui egli si formò e nei cui crocicchi polverosi o fangosi potevano soggiornare carrozzoni con dentro rinchiuse tigri bellissime, di fuoco, per dirla con Blake”. Ligabue, sostiene ancora Bertolucci, è un pittore “capace anche, da chissà quali imprestiti culturali lontani, di una pittura visionaria ma reale sino allo spasimo”, è un artista che ha saputo “portare un così gagliardo soffio d’arte europea, dell’Europa di Van Gogh e di Rimbaud,nel soffoco dell’aria nostra. E non per essersi aggiornato su delle quadricromie, che serve poco, ma sulla vita (e della vita fanno parte i sogni, come ci ha insegnato Freud), che conta moltissimo.”
Non possiamo qui soffermarci su altri “imprestiti” che si possono riscontrare nell’opera di Antonio Ligabue, già esaminati in occasione di precedenti mostre, né soffermarci su esperienze, anche in Paesi lontanissimi, che rivelano un’affinità di sguardo e di sentimenti, ma a chi persiste nel ricorso ai termini di “naïf“ e di “folle” vorrei umilmente proporre di mettersi davanti agli autoritratti dell’artista, facendoli scorrere davanti ai propri occhi, in una sorta di pausato piano-sequenza: com’è possibile non vedere che siamo di fronte a opere di un grande pittore, degne di figurare in ogni rassegna che si misuri con la rappresentazione di sé da parte degli artisti? È, quello degli autoritratti, un capitolo di altissima, e amarissima, poesia nell’opera di Ligabue – più di centosettanta su un totale di oltre ottocentosettanta dipinti finora archiviati da Sergio Negri: una proporzione che ci fornisce molti elementi di riflessione sia su ciò che s’agitava dentro di lui e lo muoveva nel raffigurarsi in una sorta di ossessione, nonostante si trattasse di un soggetto non certo tra i più ambiti e popolari, almeno durante la sua vita. Non è senza significato che il primo autoritratto dell’artista, peraltro presente in questa mostra, risalga al 1940 – nel corso del secondo ricovero in manicomio, nel quale viene anche realizzata la Tigre reale. Non sono casuali, crediamo, questa coincidenza e associazione tra il ritratto di sé e il confinamento in manicomio, così come non lo è un’opera a grafite, inchiostro e pastello su carta, Leopardo con serpente, che Ligabue realizza nel 1937, probabilmente durante il primo ricovero al San Lazzaro: un serpente avvolge nelle sue triplici spire il corpo di un leopardo, con entrambe le bocche dei due animali aperte nello spasimo e nell’urlo della lotta – un soggetto che l’artista riprenderà in pittura solo molti anni dopo, dando vita ad alcuni dei suoi capolavori, quasi che la dolorosa condizione in cui si viene a trovare nel 1937 gli ispiri quella esplicita allusione a un corpo soffocato, che sta per essere stritolato. Quando, nel 1940, Ligabue dipinge il suo primo autoritratto, ormai padroneggia con perizia la tecnica pittorica, nelle forme di ciò che rappresenta e nelle sontuosità, nei rilievi e negli accostamenti di colore; è dunque pronto ad affrontare quella che forse gli pare la prova più ardua: raffigurare se stesso. Non è più solo il tempo del dolore per l’ostracismo e la solitudine in cui è stato così a lungo costretto a vivere, non è più solo l’esperienza costante dell’irrisione e del voltarsi dall’altra parte praticato dai suoi simili, ma è la privazione della libertà di movimento che gli dice che è giunto il momento di gridare e di affermare il suo valore d’artista e la sua dignità di uomo: “guardatemi, so dinon avere fattezze piacevoli, ma sono un artista capace anche di fare quello che a molti di voi non riesce: autoritrarsi”.
Quando esegue un ritratto di sé, al di là delle diverse situazioni in cui lo ambienta, all’aperto o nel chiuso di una stanza, Ligabue si colloca in primo piano, quasi voglia riaffermare di essere il protagonista principale della scena. Il paesaggio sullo sfondo è spesso un dettaglio del tutto ininfluente, come se quel sommario delineare cielo, alberi e terra sia funzionale a fare risaltare, per opposizione, l’impietosa raffigurazione di sé che l’artista va compiendo: la costante rappresentazione del suo gozzo ipertrofico, delle rughe sulla fronte e sulle guance, volutamente accentuate, con talvolta in queste ultime incavi cupi che paiono sfociare nella cavità orale, della barba incolta e dei radi capelli spettinati, degli occhi con l’iride che guarda come se fosse all’erta per un qualche agguato che sempre può manifestarsi, del naso che reca i segni dei tormenti ad esso inflitti dallo stesso artista. Potremmo riscontrare delle varianti a questa abituale raffigurazione, anche se non ne mutano i caratteri di fondo: nell’Autoritratto con torre, 1948-1949, l’artista s’erge solitario, come chi è esiliato, scacciato “fuori dalle mura” di Gualtieri e della sua piazza; nell’Autoritratto con pianoforte e torre, 1948-1950, la stanza chiusa in cui lui si raffigura, con la finestra che s’apre sullo sfondo della piazza del paese, è un delirio di ossessioni, nella reiterazione dei motivi decorativi e dei segni ravvicinati, il tutto accentuato dalla duplicazione di un autoritratto appeso alla parete; nell’Autoritratto con cavalletto, 1954-1955, lui si raffigura nell’intrico di una sorta di inverosimile, fitta vegetazione tropicale, intento a dipingere un gallo, animale domestico per eccellenza, mentre un cane mansueto gli si sta avvicinando. S’erge, il volto di Ligabue nel paesaggio, su uno sfondo cupo, dentro un’atmosfera livida, un’attesa di tempesta; nel cielo volano neri i corvi, simbolo sinistro di una tragedia che incombe; nell’ambiente, all’aperto o nel chiuso di una stanza, ronzano e si vanno a posare sul suo viso le mosche fastidiose (quelle che spesso comparivano nei dipinti delle antiche vanitas): tutto è presagio di una fine, di un inesorabile agguato che la morte sta tendendo. Non ci sono serenità o indifferenza negli autoritratti di Ligabue: i suoi occhi paiono sempre intenti a percepire ciò che può stare alle loro spalle, come se anche lui si sentisse un animale braccato, che sa di non potersi concedere una tregua, un momento di abbandono, giacché un’insidia mortale può essere in agguato – e non si tratta solo, in questa costante posizione dell’iride all’interno della pupilla, della conseguenza meccanica dell’immagine di sé che lui vedeva guardandosi nello specchio che teneva accanto al cavalletto… 
Se scorressimo, in una sorta di ideale sequenza temporale, i suoi autoritratti, potremmo leggervi una perenne,costante condizione umana di angoscia, di desolazione e di smarrimento: non solo il dipanarsi dei sentimenti propri dei giorni in cui un certo dipinto fu realizzato, ma il lento cammino verso l’esito finale, con i segni che il succedersi dei giorni e delle stagioni lascia sul suo volto. Quando dentro di sé tutto è un gorgo che s’avviluppa senza fine, quando perduta è ogni speranza, ormai fattasi cenere, il volto non può che assumere questo colore scuro, fangoso, questa sorta di pietrificazione dei tratti che il dolore ha recato con sé e vi ha impresso. Tra il ritratto di Ligabue, e l’universo in cui lui lo colloca, va crescendo una distanza che mai può essere colmata: il suo volto esprime sofferenza, fatica, sgomento, male di vivere; ogni relazione con il mondo pare essere stata per sempre recisa, quasi che l’artista possa ormai solo raccontare la tragedia di un volto e di uno sguardo, che, pur non essendo cieco, più non si cura di vedere le cose intorno a sé. L’artista si è guardato e chiede, almeno per una volta, di esserlo a sua volta, giacché fino all’ultimo non ha rinunciato a inseguire una pietà, una condivisione, a coltivare un disperato desiderio di aiuto. Gli autoritratti di Ligabue sono un grido nel silenzio della natura e nell’indifferenza e nella sordità delle persone che lo circondano, spesso inconsapevoli delle sofferenze che possono essere inflitte a una persona, quando non se ne vede e non se ne coglie la perenne, inalienabile, identità di uomo. 
SANDRO PARMIGGIANI-Curatore della mostra
Pavia, 16 marzo 2017

Estratto dal testo in catalogo Skira






2017-04-02


   
 

 

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