Secondo T.S. Eliot aprile è il mese più crudele perché ridesta un’insopprimibile brama di vivere (“genera lillà dalla terra morta, mescolando memoria e desiderio”); per molti napoletani invece maggio (era) è non soltanto il mese delle rose ma il momento più felice dell’anno in quanto portatore di un risveglio di orgoglio ed amore per la propria terra che ha pochi paragoni con altre metropoli. Tutto cominciò con “monumenti porte aperte”, l’iniziativa culturale che consentiva, sia pure per un brevissimo periodo, di entrare in stretto contatto con i beni culturali cittadini, ovvero con lo sterminato patrimonio artistico di cui la città dispone. Fu un successo straordinario, al di là di ogni rosea aspettativa, tanto è vero che si pensò ben presto, come molti ricorderanno, di dare più fiato alla manifestazione in questione; si giunse così a istituzionalizzare l’evento assegnandogli un periodo più lungo, il mese dimaggio appunto, dedicato d’ora in avanti alla conoscenza e all’approfondimento delle bellezze storiche e architettoniche. Furono istituiti dei fine settimana mirati e tematici, sostenuti da una campagna di promozione nazionale o addirittura internazionale e così via. L’esperienza va avanti, solo che col tempo, forse come tutte le cose che si istituzionalizzano nella città ( nel senso che vengono affidate alle istituzioni) ha perso gradatamente il suo “appeal” ovvero, per restare in argomento floreale, è appassito come una bella rosa di maggio. Si verifica poi puntualmente uno scollamento tra le aspettative e i risultati e soprattutto una contrapposizione sempre più marcata tra gli organizzatori e i fruitori o meglio tra i proponenti e coloro che dovrebbero farsi carico della distribuzione e promozione e riceverne poi qualche vantaggio. E’ accaduto anche questa volta. Da una parte si sostiene di aver messo in campo un progettostraordinariamente ricco e allettante e dall’altra si replica sostenendo che si è trattato dell’ennesimo bluff, un programma raccogliticcio, senza capo né coda e soprattutto senza far ricorso a una programmazione strategica. Senza dare cioè la possibilità di valutarlo e pubblicizzarlo adeguatamente. Al di là ora dei torti e delle ragioni, occorre dire che il “maggio” è lo specchio dei nostri tempi: tutto avviene in condizioni emergenziali, afflitti come siamo da precarietà endemiche e scarsa consapevolezza culturale. Si naviga a vista quando non addirittura senza bussola e alla fine, come nel famoso adagio, si chiede di non sparare sul pianista visto che “fa quello che può”. Il punto semmai è proprio questo. Quando finirà – se mai finirà – questo stato di cose? A chi bisognerà appellarsi perché qualcosa cambi nella sostanza e cominci soprattutto a funzionare per davvero? E certo non può bastare il restauro di una fontana per rifarsi davvero un “look” omagari tirare in ballo il povero, grande Giacomo Leopardi chiamandolo impropriamente a fare da nume tutelare, ovvero da padrino, di una stagione di eventi effimeri e passeggeri ignorando proprio le lucide e penetranti riflessioni del grande poeta sulla società del suo tempo che sono ahimè applicabili, pari pari, anche al nostro e che suonano semmai come un ironico e beffardo de profundis di una condizione civile e culturale irrimediabilmente logora e disperante. Antonio Filippetti
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