Alberto Sughi
Le mani del Pittore
 











Alberto Sughi
La mano del pittore
Disegno, cm 29,7x21

Sono entrato nello studio immerso in una silenziosa penombra; quando ho aperto le finestre la luce si è stampata sul bianco delle pareti; non arrivano, questa mattina, rumori dalla strada; il traffico dei romani, di domenica, si snoda lontano da qui.
Come d’abitudine ho messo il camice bianco che è mia tuta di lavoro, ma invece  di entrare nella grande stanza dei cavalletti e delle tele, lo studio vero e proprio, mi sono seduto alla scrivania della camera che la precede, quella delle letture e delle conversazioni con gli amici che vengono a trovarmi.
Il piano è ingombro di lettere in attesa di una risposta che ho continuato a rimandare a quel giorno dopo che non è mai arrivato.
La vista di queste lettere ammucchiate, segno visibile della mia inadempienza, mi procura un vero disagio. Ogni tanto, quando il fastidio diventa insostenibile, anche per lo spazio che si prendono, senza nemmeno dare una occhiata da dove e da chi mi sono arrivate, considerando scaduti i termini di corrispondenza, ne faccio dei mazzetti stretti da un elastico che metto in qualche cassetto della scrivania o sopra i volumi stipati nei ripiani della libreria.
Mi rigiro le mani una sull’altra, sto per dare l’avvio a questa specie di cancellazione; ma prima le stendo e mi fermo ad osservarle.
Stropicciarmi le mani e poi distenderle per guardarle soprattutto sul dorso è un gesto consueto; ma questa mattina lo sguardo si ferma più a lungo.
La luce illumina le mie mani invecchiate: la pelle è sottile e trasparente come un velo raggrinzito che copre, senza nasconderlo, il grigio bluastro delle vene, e mette in risalto le ossa del metacarpo.
Le mani sono una specie di cartina del cammino che abbiamo fatto dentro il trascorrere del tempo; forse ci indicano anche, del nostro percorso, il punto a cui siamo pervenuti.
Le vecchie fotografie ingialliscono, il nostro aspetto cambia, il respiro diventa più
Alberto Sughi
La sera del pittore -1987-88
Olio su tela, cm 180x230
corto: i segni degli anni aggrediscono la nostra immagine e rallentano i nostri passi; per fortuna, o per disgrazia, rimaniamo la stessa persona.
“Pronto, sono Alberto, come stai? Da quanto tempo non ci sentiamo…” ho allungato la mano al telefono sulla mia sinistra e ho chiamato il vecchio amico. Ci conosciamo da quando eravamo  ragazzi; ci sono stati lunghi periodi in cui avevamo l’occasione di vederci con grande assiduità e la nostra amicizia è stata preziosa per lo scambio di contenuti umani e culturali che ci ha offerto.
“Sto finendo il terzo e ultimo volume , ma mi è necessario sempre più tempo, avverto come una sorta di rallentamento nel procedere nel lavoro” “Capita anche a me, Renato, ed è singolare questo bisogno di più tempo quando cominciamo a capire che ne avremo sempre meno q disposizione. Ormai mi sono abituato a questo stato di cose e mi sembra normale, addirittura confortante, passare giorni nello studio a lavorare allo stesso quadro facendo e disfacendo. Aggiungo e poi tolgo, cambio un colore, cancello una figura; alle volte il dipinto prende una direzione imprevista che io seguo per non lasciarmelo sfuggire.
Gli anni giovanili ci proponevamo viaggi più avventurosi verso luoghi distanti e sconosciuti. Si dava appena uno sguardo ai posti in cui eravamo arrivati e subito si ripartiva per scoprire altri paesaggi.
Da giovane si crede, e forse è vero, che il mondo e la vita non abbiano confini.
Ci siamo salutati con la raccomandazione di sentirci più spesso e di vederci almeno qualche volta.
Il mio sguardo si ferma sul Savinio vicino alla finestra, ma per caso, senza curiosità,; i miei pensieri sono rimasti alle parole che ci siamo scambiati. La breve conversazione ha, senza averne l’intenzione, disegnato lo stato delle cose; dentro il tempo che passa si sono perduti tanti nostri progetti; il tempo presente ci appare estraneo e indecifrabile.
Ė arrivata per noi l’ora della riflessione; cerchiamo di capire come, perché e
Alberto Sughi
Gran caffè
Olio su tela, cm 60x80
quando. In quel momento tutto sembra rallentare. Ma cercare di comprendere quale sia il significato della vita, vuol dire percorrere una strada accidentata dove il passo naturalmente si fa meno veloce.
Prendo dei fogli di carta che tengo sempre sulla scrivania per scarabocchiarci con la biro quando una telefonata si allunga o prima di cominciare le cose che devo fare. Sono schizzi che nascono pensando ad altro; molto lontani dal mio lavoro di pittore di cui rimane soltanto, per una sorta di automatismo, il gusto del segno e del chiaroscuro. Ma così capricciosi da apparire a me stesso qualche volta sorprendenti e con qualcosa di insensato che non sono capace di esprimere, e lo vorrei, nei miei quadri.
Appoggio la mano sinistra sul foglio con le dita appena allargate e come fanno i bambini, la ricalco seguendone i contorni; disegno poi le unghie, le grinze sulle nocche e accentuo le pieghe della pelle come un guanto sgualcito; metto anche il titolo in corsivo La mano del pittore.
Due quadri di grandi dimensioni sono girati verso il muro sulla parete di fondo dello studio; un altro è sul cavalletto da ormai tanti giorni.
Non lavoravo a questo dipinto, che ritenevo praticamente completato, da parecchio tempo; tuttavia l’ho lasciato sul cavalletto perché mi ero ripromesso di stendere alcuni particolari della figura che mi sembravano troppo indeterminati.
Mi sembra un buon quadro, forse il migliore tra quelli che ho dipinto in questi mesi.
Dopo qualche esitazione decido di mettermi al lavoro e di procedere con grande cautela attento a non fare interventi che possano determinare uno sconvolgimento dell’immagine.
Mi sembra, in questo lavoro di rifinitura, di andare avanti abbastanza agevolmente facendo attenzione a raccordare bene sia i toni sia i colori affinché non si veda che il quadro è stato ripreso.
Purtroppo se c’è per me una condizione innaturale è proprio quella di procedere con troppa cautela; se dipingo reprimendo la naturale gestualitàperdo molto della mia pittura.
M’accorgo di non essere più in sintonia con l’immagine del mio quadro; senza rendermene conto sono finito dentro un labirinto.
Devo farmi coraggio, abbandonare l’eccessiva prudenza e recuperare la mia naturalezza per guadagnare l’uscita.
Ricomincio a lavorare con molta ansietà; i pennelli diventano sempre più sporchi e numerosi, gli stracci imbevuti di acqua ragia per cancellare le riprese che avevo fatto sono sparsi sul tavolo che mi fa da tavolozza, i colori mischiati assumono un aspetto grigiastro.
Non riesco più a dominare il disordine che cresce intorno a me, è ormai arrivato dentro la grande tela. Adesso sono quattro le ore passate a remare dentro questo quadro che sembra diventato un mare in burrasca. Tra scoramento e speranza ho continuato a darmi da fare perché la barca non c’è più.
Le mani, le mani del pittore, portano i segni di questa battaglia che anche loro hanno perduto: sono inerti, sporche, imbrattate di colore e annerite di fusaggine.
Come sempre me le lavo con la stessa pasta che adoperano i meccanici per togliere la morchia. 






2010-08-31


   
 

 

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