DA RAFFAELLO a GOYA
Ritratti dal Museo di Belle Arti di Budapest
 


Il museo come necessità politica e identità culturale: il caso di Budapest





di Vittorio Sgarbi




De man
Ritratto di famiglia

Anche i musei d’arte sono state vittime della “Guerra Fredda”. Prima che la contrapposizione fra USA e URSS diventasse frontale, coinvolgendo strettamente i rispettivi alleati, esisteva una sola, grande Europa dei musei d’arte. Esistevano, certo, differenze fra luogo e luogo, fra nazione e nazione, fra tradizione e tradizione culturale, ma non esisteva alcuna cortina di ferro a separare Occidente e Oriente come fossero due mondi inconciliabili.
Poi le cose sono cambiate e la vecchia fratellanza europea è andata dimenticata. Ognuno, a Occidente come a Oriente, veniva indotto a pensare di stare nel miglior mondo possibile e a ignorare ciò che succedeva nell’altro. Ricordo delle imprecise notizie che circolavano sui musei di Mosca e Leningrado, dell’avversione manifestata dal regime sovietico per l’arte “anti-sociale”, a differenza di quanto capitava nel libero Occidente, per poi verificare che fra le due città russe esisteva una delle maggiori collezioni di Avanguardia novecentesca. Ricordo prima della caduta del famigerato Muro, ammettere che Berlino Est possedesse le più importanti opere pittoriche dei vecchi Staatliche Museen. Ci si rendeva conto solo giungendo sul posto, quando per arrivare a Dahlem si doveva passare per i posti di blocco; e ci si chiedeva il perché di tanta renitenza, come se gli occidentali avessero qualcosa di cui vergognarsi. Più di recente, durante il golpe popolare che rovesciò Ceausescu, qualcuno si sorprese che le pallottole dei rivoltosi avessero gravemente minacciato opere del Museo d’Arte di Bucarest come la Crocifissione di Antonello da Messina, proveniente da Sibiu. Si considerava Bucarest fuori dalla tradizione europea, dimenticando che solo quarant’anni prima la capitale romena era pienamente coinvolta nei costumi culturali continentali.
Oggi che i muri sono crollati e le dittature comuniste sconfitte, oggi che la vecchia-nuova Europa torna a considerasi come un’unità culturale e politica che non concepisce alcuna artificiale contrapposizione fra Occidente e Oriente, gli occidentali riscoprono i musei d’arte che una volta stavano oltre cortina, veri simboli della continuità storica e ideale fra parte e parte del continente, ingiustamente trascurati perché di più rara e difficile frequentazione.
In questa riscoperta cresce di interesse il Museo delle Belle Arti di Budapest, la cui storia non solo s’inserisce perfettamente nel solco di una
comune storia europea del museo e del collezionismo artistico, ma è anche una istituzione che come poche altre ha dato un contribuito di primaria importanza nella definizione dell’identità culturale della propria nazione e della grande Europa.
Importa notare come nell’Ottocento la crescita delle dotazioni e della considerazione presso gli ungheresi del Museo di Belle Arti di Budapest è andata di pari passo con l’urgenza della indipendenza nazionale. Nell’anno dei grandi moti rivoluzionari europei, il 1848, Lajos Kossuth, padre della patria ungherese, si era fortemente preoccupato di favorire l’accrescimento delle collezioni del Museo delle Belle Arti di Budapest, per creare un vero tesoro nazionale  che certificasse la legittimità dell’Ungheria di stare sullo stesso piano delle grandi nazioni europee (la Francia del Louvre, la Spagna del Prado, la Gran Bretagna della National Gallery), e servisse ai connazionali per trovare motivi di riconoscimento nella storia documentata da questo patrimonio, anche in rievocazione ideale del vecchio tesoro che i sovrani ungheresi avevano raccolto e che gli Ottomani avevano disperso nel Cinquecento.
Mentre tutti i rivoluzionari d’Europa pensavano alla forza delle idee e dei movimenti popolari per abbattere i residui dell’ancien régime, Kossuth pensava a fare la rivoluzione anche attraverso la forza culturale di un museo. Per capire fino in fondo l’intelligenza della posizione di Kossuth, e con lui di tutti i benemeriti ungheresi che fra una metà e l’altra dell’Ottocento hanno arricchito di donazioni il Museo di Belle Arti di Budapest secondo un progetto politico e culturale comune, dovremmo ricordare che in quel momento l’Austria occupatrice e tiranna non si era ancora dotata di una pinacoteca nazionale. Il Kunsthistorisches di Vienna avrebbe aperto solo nel 1891, per volontà di Francesco Giuseppe, unificando le collezioni degli Asburgo e vincendo le resistenze dei suoi familiari nel metterle a disposizione di un’istituzione pubblica. Anticipare l’Austria voleva dire scoprire l’insanabile arretratezza culturale degli Asburgo, di cui la politica anti-autonomista rispetto alle nazioni sottoposte all’impero era una diretta conseguenza. Kossuth non voleva una libera Ungheria che fosse pari all’Austria degli Asburgo, voleva una nuova nazione che culturalmente fosse in grado di guardare più avanti di quanto non potessero pensare Francesco Giuseppe e la sua stirpe, per non essere coinvolti nella decadenza che i
El Greco
Studio di uomo
tempi nuovi avrebbero inevitabilmente decretato. Il Museo delle Belle Arti di Budapest sarebbe stato un simbolo perfetto di questa volontà, oltre ad avere presso i magiari le essenziali funzioni civili che le menti più avvedute già riconoscevano al museo nell’educazione moderna di un popolo.
Ammirando la lungimiranza di Kossuth, penso alla storia italiana, impegnata durante gli stessi anni dell’Ungheria nella lotta per l’indipendenza e contro il comune nemico austriaco, dotata di un patrimonio museale e monumentale superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo, e non mi pare di poter riconoscere che un Garibaldi, un Cavour o un  Mazzini, nella loro azione politica, abbiano maturato le stesse convinzioni del patriota magiaro. Per i nostri padri della patria, la cultura dei quali si era formata nella idea del primato della letteratura, il patrimonio storico-artistico era un argomento di retorica piuttosto che un fattore concreto di politica, come invece lo era per Kossuth: l’arte del passato sembrava avere ancora una funzione propagandistica troppo vincolata alla Chiesa, per una concezione confessionale dello stato che si contrapponeva inevitabilmente alla nascita di una nazione italiana laica. Paradossalmente, non escluderei che ai nostri padri della patria l’arte sembrasse più in grado di dividere gli italiani invece che di unirli: gli stessi musei erano in fondo espressione emblematica delle vecchie monarchie e delle culture locali, dunque di un’Italia regionale e divisa che si voleva superare, attraverso una “nazionalizzazione” che avesse minime mediazioni con la situazione precedente. Una “nazionalizzazione” talmente intensa da far credere ad alcuni che la storia e la cultura locali fossero destinate all’annullamento e all’assorbimento nella nuova storia e cultura nazionali. Forse molti dei problemi attuali della coscienza culturale degli italiani derivano da questa partenza sbagliata, dalla mancanza di una figura come Kossuth che guardasse alla funzione unificante del museo e del patrimonio storico-artistico in modo più avanzato di quanto la realtà della metà dell’Ottocento facesse sembrare.
Qual’era l’identità culturale alla quale già mirava Kossuth, pensando politicamente al Museo delle Belle Arti di Budapest? Un’identità sorprendentemente attuale, lontanissima dalle assurde radicalizzazioni della “Guerra Fredda”, che vede l’Ungheria su un doppio binario rispetto all’Europa, nel segno di una comune tradizione mitteleuropea che non
Van Dyck
Coppia di sposi
impedisce ai magiari di avere rapporti importanti con i paesi mediterranei, senza che ciò riduca la specificità della loro vicenda storica e culturale.
E’ un’Ungheria che, per esempio, ha avuto una storia, non solo artistica, di rapporti privilegiati con l’Italia, risalenti fino ai tempi di Santo Stefano, non solo primo martire ma primo protagonista della cristianizzazione dei magiari, e attraverso il quale si stringe una feconda relazione dinastica e culturale con Venezia che anche nei secoli seguenti esercita benefici effetti nelle preferenze dei committenti e dei collezionisti ungheresi. E’ un rapporto storico e culturale che s’intensifica con gli Angioini, che controllano contemporaneamente il nostro Meridione e l’Ungheria lungo tutto il quattordicesimo secolo, ossia nel momento in cui il Gotico avanzato comincia a manifestare un’inedita unità di sentire artistico fra Nord e Sud dell’Europa, stabilendo il massimo punto di vicinanza fra luoghi fino a quel momento culturalmente distantissimi come Siena, Firenze, Avignone, Parigi, Digione, Roma, Milano, Padova, Praga, Barcellona, Napoli. C’è una chiesa, a Napoli, che allo stesso modo si pone come un sacrario di memorie ungheresi e testimonianza di una koiné artistica nazionale ed extra-nazionale sempre più libera dalla tradizione bizantina: Santa Maria Donnaregina. E’ qui che Pietro Cavallini e i suoi, in particolare negli affreschi dell’Apocalisse, portano da Roma la sua innovativa pittura “latina”, parallela e forse anticipatrice di quella di Giotto. E’ qui che Tino da Camaino dedica a Maria d’Ungheria, madre di Roberto II d’Angiò, il monumento funebre importante per la diffusione in Italia del “latinismo” artistico, traducendo in pietra l’influenza della pittura di Giotto e di Simone Martini, che maturerà ad Avignone. E’ qui che Giotto, a cui Roberto d’Angiò aveva riservato accoglienze principesche, lascia una scuola che trova la sua prima elaborazione locale nel ciclo delle Storie di Elisabetta, santa tanto cara ai magiari. Se per un collezionista ungherese dell’Ottocento avanzato come il vescovo Ipolyi i Primitivi hanno un interesse così rilevante, superiore a quello medio che si riscontra nelle contemporanee collezioni italiane, è forse anche in virtù di una coscienza storica e artistica che, rifacendosi al Trecento, avverte più che altrove la sintonia culturale fra l’Italia e l’Ungheria. Ma anche oltre il Trecento angioino, l’Italia e l’Ungheria dell’arte hanno continuato a stabilire intense
Veronese
Ritratto di uomo
relazioni: si pensi a Mattia Corvino, condottiero e illuminato umanista quattrocentesco che non voleva essere meno splendente dei Medici, Sforza, Montefeltro ed Este nel sostenere la rivoluzione artistica del nostro Rinascimento, o alla straordinaria storia collezionistica degli Esterhazy, una delle più impegnate fra le famiglie europee non regnanti: tutti ricordiamo il Raffaello. E non dimenticherei neanche il fatto che Kossuth ebbe un esilio nella Torino savoiarda, dove sarebbe addirittura morto, scoprendo che la prima capitale del nuovo stato italiano era la più francese delle nostre città, certo più vicina a Parigi che a Palermo, e dotata di una vocazione europea come quella della Napoli e dell’Ungheria degli Angiò.
Avrei potuto parlare delle singole opere del Museo delle Belle Arti di Budapest, soffermarmi su questo o quel dipinto come se la sua presenza in Ungheria non fosse diversa da quella che sarebbe stata in Italia, in Austria o in Inghilterra. Ho preferito invece ribadire il profondo valore d’insieme del Museo delle Belle Arti di Budapest nel porsi storicamente come necessità politica per l’Ungheria motivo indispensabile di identità culturale, in modo da proporre a coloro che ne ammireranno in Italia i capolavori una visione complessiva che evidenzia l’attualità civile della sua lezione: non solo opere belle da ammirare, ma opere che servono a farci crescere e a farci diventare cittadini migliori.
Credo che questa sia la strada giusta per una idea di Europa in cui i popoli non si riconoscano solo per una moneta comune, ma per condividere una storia culturale. Solo dalla giusta coscienza del passato, quando l’Europa era al centro del mondo, verrà anche quella di un presente che pretenda per il nostro continente un peso politico sempre maggiore, finalmente emancipato dai vecchi condizionamenti della “Guerra Fredda”.

 






2004-08-25


   
 

 

© copyright arteecarte 2002 - all rights reserved - Privacy e Cookies