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Simonini
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Il
suo realismo.
di
Raffaele de Grada
Negli ultimi due decenni la vocazione di Simonini è stata
specialmente ispirata dai suoi lar-ghi e ripetuti soggiorni parigini
dandoci una piacevole serie di quadri in cui ritroviamo non la chiesetta
e la periferia utrilliana ma la festosa accoglienza dei boulevards
e soprattutto gli interni più o meno famosi dei caffè,
dei bistrò, dei ristoranti. E non solo a Parigi. Questa sua
libertà di discorso, questo gratificante incontro con la
vita, 'Pippo' (come familiarmente lo chiamiamo) lo trasporta anche
altrove, a Venezia nei giorni del Carnevale, davanti ai banchi della
pesca, nella splendida cornice del Caffè Florian.
In ciò Simonini sembra lontano dal nostro 'realismo sociale'
degli anni Cinquanta. L'orrendo mondo delle stragi etniche e politiche
che hanno percorso i nostri anni sembra non l'abbiano toccato. Non
credo che, dipingendo in grata solitudine le acque della Senna dal
ponte di Alessandro III, il sovrano jugoslavo che su quel ponte
fu fulminato insieme al presidente Barthou dall'odio folle di un
nazionalista croato, Simonini abbia pensato all'orrore di quell'evento
né che, raffigurando i caffè parigini come "La
Rotonde", egli ab-bia sentito gli ultimi olezzi di quando gli
stessi caffè hanno subito l'onta della lunga occupa-zione
nazista di Parigi.
Io sono intimo di questo pittore che con gli altri sembra scontroso,
che invece è soltanto timido. Alcune volte ho percorso con
lui i silenti giardini del Lussemburgo e gli ho ram-mentato che
uno scorcio di quei giardini è stato l'unico 'paesaggio'
dipinto da David, dalla finestra della sua prigione quando il Termidopro
incarcerò quel grande pittore che era stato un autorevole
membro della sinistra della Convenzione. 'Pippo' si accorgeva di
aver colto un po' di quella malinconia, in quel luogo, due secoli
dopo. Non ci aveva pensato ma quel sentimento sopravviveva.
La sopravvivenza dei sentimenti, più che l'evoluzione degli
stili, è la base di giudizio su un artista. Nella mia vita,
da vicino, mi sono accorto di questo principio elementare. Mio padre
Raffaele prese in gioventù una cotta per Cézanne,
non tanto per il suo stile, che l'avrebbe portato al cubismo, quanto
per quel sentimento di razionalità davanti alle colline mediter-ranee
che fu la grande, autentica lezione di Cézanne. Mia moglie
Maria Luisa Simone, una pittrice di grande qualità, rifiutando
la letteratura mercantile, vive del mito di Gauguin e di un primordialismo
oceanico che intanto si è trasformato in un 'tutto turismo'.
Sono i sen-timenti che trasmigrano, non le forme, come per metempsicosi.
Simonini, quando dipinge i luoghi e i soggetti degli impressionisti
frequentati poi nel nostro dopoguerra da Jean Paul Sartre e dagli
intellettuali della sua cerchia, non pensa tanto alle forme, agli
stili di quei pittori. Nei caffè di Saint Germain des Près
o di Montparnasse, egli ascolta l'onda lunga dei sentimenti, senza
fretta, senza enfasi e dipinge come se quei santoni che l'anno preceduto
non fossero morti ma rivivessero in lui.
Allora, chi è Domenico Simonini, pittore e incisore, nato
e operante a Vignola (Modena), a Parigi e che attinge i suoi soggetti
anche a Milano, Venezia e altrove?
Già altre volte, come ho detto, mi sono occupato di lui e
ne ho scritto. Mi pare che oggi su questo artista in piena maturità,
possa rendersi una testimonianza non più provvisoria. Di
fronte al processo della storia il buon avvocato potrebbe produrre
meriti e attenuanti per questo pittore. Innanzitutto, Simonini è
indenne da tutto quel settore delle arti che ha fatto della decorazione
il suo scopo. Quando dipinge una scena di caffè, un mercato,
un angolo di strada, egli arricchisce il soggetto con un mazzo di
fiori, con ombrelloni, con lampade, con bicchieri, bottiglie. Ma
non punta su questi abbellimenti colorati a scapito della descri-zione
della scena, la musicalità del colore non interrompe la figurazione
disegnata del mo-mento, dell'occasione.
Nell'ambito di questa pittura 'non decorativa' Simonini si concentra,
con risultati talvolta eccellenti, sulla grande arte, quella che
ha il sapore, per quanto svanito dai tempi, di Tinto-retto, di Rubens,
di Delacroix. Questi grandi esempi lo salvano dalla pitturetta provinciale
in cui si attarda il nostro secolo italiano, proprio ora che si
parla tanto di Europa mentre il nostro Paese diventa ancora una
volta, col flusso migratorio che stiamo subendo, multietni-co.
Punto secondo: Simonini è un lavoratore, da quando si alza
la mattina non perde tempo, disegna, dipinge, studia. Oggi i pittori
impiegano il loro tempo nell'insegnamento, per cam-pare naturalmente.
Ieri si perdevano nei caffè, per discutere naturalmente.
Simonini lavora, una volta sbrigate le necessità familiari,
lavora, produce.
Non è costume inserire gli artisti nella lunga fila dei disoccupati
del nostro tempo, sarebbe disdicevole. D'altra parte la nostra società
fa sempre più a meno dell'opera degli artisti che non ricevono
più commissioni dai grandi Signori, dalla Chiesa, dai grandi
borghesi. Bei tempi quelli in cui il borghese, appena accumulato
il denaro, pensava a ornare la casa con le opere degli artisti.
Oggi nel migliore dei casi l'acquisto delle opere nelle aste finisce
nei ca-veaux delle banche insieme ai titoli, alle azioni. L'artista
si difende associandosi in clan, un gruppo sostenuto come pubblicità
da un mercante che cerca di farsi una piazza vendendo ad altri mercanti
finché, nelle maglie, può arrivare un vero cliente.
Simonini dipinge buoni quadri, che piacciono a quelli che lo conoscono,
lo ammirano e ri-chiedono le sue opere.
Per ora non suscita molte invidie dei colleghi. E' una conferma
o una disgrazia?
Il nostro pittore, sereno nell'oggi, attende fiducioso il domani.
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