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Un indipendente del nostro tempo.

di Raffaele de Grada

Futurismo, cubismo … bauhaus, astrattismo, quante definizioni di stili si sono avvicendate nel nostro secolo. Ed ognuna di queste definizioni ha fornito trampolino ideale a pittori e scultori per lanciarsi nella difficile arena delle arti e diventare, a loro volta, un "maestro" del nostro tempo, presentarsi allo show-room, come oggi si dice, destinato al pubblico.
I mercanti e la critica loro dipendente hanno fatto di tutto nel nostro secolo per accreditare i nomi di coloro che essi avevano acquisito a basso prezzo per rinnovare il mercato, esal-tando i nuovi valori e deprimendo quelli precedenti, innescando la darwiniana legge del "modernismo" per cui le cosiddette aste si sono sempre più trasformate in borse-valori e-sattamente come quelle che commerciano i titoli finanziari. I pittori e gli scultori che resta-vano estranei agli schemi e che non avevano altra arma che la qualità della loro arte, veni-vano tagliati fuori dalla "storia" dell'arte.
Si può pensare che il fenomeno non riguardi soltanto il nostro secolo e che nel passato grandi artisti difficilmente definibili, come Füssli o Blake, per il loro carattere di indipen-denza, hanno trovato riconoscimenti tardivi e non pari al loro effettivo valore. Ma la cosa è diversa. Nel passato un'opera che si presentava come veramente nuova e diversa era capita dal pubblico soltanto quando si maturava, nel pubblico stesso, una base culturale cui ap-poggiarsi ed atta a misurarne la qualità.
Questo sarebbe il compito della critica. Ma è così?
Oggi il critico che si trova davanti all'opera di un artista non inquadrabile in una delle gran-di correnti mercantili stenta a pronunciarsi e, vittima delle sue riserve mentali, dice a se stesso "chi me lo fa fare? Perché devo impegnarmi e compromettermi?". Così, per assurdo, ci si affida a ciò che è stato sanzionato dalla "storia" che ormai, alla fine del secolo, non è più soltanto quella del dell'Ottocento. E talvolta i più severi contro gli anticonformisti sono proprio i tradizionalisti "pentiti" che devono farsi perdonare.
Questa premessa mi pare necessaria affrontando il discorso su un artista che si presenta in modo semplice, "popolare" come Domenico Simonini, nato e operante a Vignola, la città delle ciliegie, in provincia di Modena.
La vocazione di Simonini è per una pittura largamente corale, rappresentativa, tele di ampie dimensioni con soggetti di caffè, di boulevards, di ristoranti, di mercati. La sua figurazione è precisa, puntuale, non soffre di stilizzazioni novecentesche, è assolutamente naturale, reale. Incontrando le sue figure, vien voglia di dir loro: "Buon giorno, come va" col cuore aperto. Lo stesso interesse che il pittore ha per la figura si manifesta per gli oggetti che si distendo-no su piani ampi, in profondità, allietati da fiori, bottiglie, biscotti… Sono armonie variatis-sime che suggeriscono un accompagnamento musicale, come nel cinema.
Queste armonie affettuose, cantabili, sono lontanissime dalle deformazioni angosciose, sa-taniche di tanta pittura figurativa d'oggigiorno che, per farsi perdonare la figurazione, ne esaltano i valori espressionistici, in continua contestazione col reale. Simonini invece vuole bene alla gente, non la evita isolandosi, la incontra e ne intuisce i caratteri particolari, il di-vertimento intento di chi gioca a carte, il malcelato protagonismo di una cameriera che reca un vassoio, il fare sornione di un pesciaiolo, di un erbivendolo.
I quadri di Simonini hanno un grave difetto nel mondo d'oggi, piacciono, piacciono alla gente che si affeziona al quadro perché aiuta a sognare, a sognare sulla scorta del vero, com'è il piacere della gente comune che non è ancora intossicata dall'intellettualismo con-temporaneo.

 

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