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METAMORFOSI DELLA COMUNICAZIONE
di
Paolo Paoli
Michel
Bersce è abituato, per lunga consuetudine di lavoro, a guardare
l’esistenza senza farsi affascinare o distrarre dai fatti
clamorosi, dalle narrazioni straordinarie della natura o dai particolari
della cronaca. Il suo passo è misurato, diffidente verso
ciò che mostra potenza e lucentezza, verso le cose gonfie
di salute o strane. Ad accostarsi alla vita, con le esitazioni e
l’impeto che gli sono propri, con un grande senso di rispetto
verso i fenomeni umani e naturali, s’è accorto di certe
imperfezioni, di certi luoghi inconclusi e brulli che proprio per
la loro apparente inefficacia, per la modestia e la povertà
espressiva quasi disarmanti, contenevano tanta più sotterranea
poesia di tutte le luminarie alle facciate dell’estetica.
Erano senz’altro da preferirsi alle esplosioni della fantasia,
agli effetti dell’esasperazione dadaista o surreale, alle
deformazioni stilizzatrici o edonistiche, e alla forma goduta come
divinazione classica; elementi, questi, di una cultura cucinata
a scopo di facili proventi artistici e letterari, o di sfilate seducenti
in seno a un mondo così distratto e preoccupato dai suoi
orgasmi politici e sociali, da lasciar passare per buone anche le
più banali, arbitrarie provocazioni del linguaggio. Bersce
assume ciò che è rimasto della forma dopo la macerazione
e lo scambio della fantasia in concretezza, il suo percorso è
dalla struttura ideale, raffinata, alla visione palpabile da riscontrare
in quanto è noto, acceso alla nostra esperienza dei sensi.
Egli è pittore serale, pittore di una stagione d’autunno
cauta nei colori e nelle reazioni della luce: il suo tempo è
bruno e indaco; guarda, nella sua sera irripetibile, le cose che
si aggrumano, che nella loro greve corposità si raccolgono,
quasi si confortano, attorno a qualche luce rimasta accesa e diffusa,
fatta di lontani riflessi. Guarda la natura tradotta in ruvida approssimazione
lirica, di un ambiente che risente della passione umana, di sotterraneo
senso tragico, di visioni provocanti: ne risultano forme lievitate
nelle coltri variamente elastiche e sollecitanti, una complessa
asperità di immagini che avverte la lotta tenace verso una
materia che non si arrende facilmente alla sintesi pittorica e che
viene proposta ancora vibrante di questa concentrazione creativa.
E’ logico, si direbbe fatale, che nell’opera di Bersce
avvenga un continuo acutizzarsi e riaffermarsi di quelle sensazioni,
delle definizioni che siamo soliti riconoscere nella natura, quindi
in noi stessi, nel nostro magma emotivo e passionale nel quale convivono
la brutalità, il vizio della prevaricazione e lo scioglimento
sentimentale, le inguaribili tenerezze romantiche: con queste presenze
Bersce dipinge, e sembra che impasti nel calamaio della nostra macchina
mentale i suoi colori vischiosi e molli assieme con le nostre torbide
intuizioni spirituali, le nostre paure della stasi, dell’imperturbabilità,
oppure del moto, del rischio della vita che non ha o non può
avere una direzione unica, invariabile.
Nella nostra storia figurativa, emotiva, di cultura e di tempo,
di luogo e di mito, Bersce provoca migrazioni spontanee di forma
in altra forma, di sensi scoperti in eccitazioni sottese; caricata
d’angosce e di cose non dette, la sua natura, così
percorsa e sfiancata, viene assorbita in un’epopea reale che
confina con l’ombra, con l’amorfo, l’incerto e
l’indescrivibile, con quel velo di morte che Bersce tiene
come sospeso, ma senza mai farlo cadere sulla sua traccia lirica.
Sul filo di questa tumultuosa, incalzante aritmia della natura legata
alla sua realtà nascosta, alle illusioni reali, alle forme
che sono e non sono vere a seconda del tempo e della luce, a Bersce
basta l’intuito, la sensibilità plastica e la partecipazione
ai valori più semplici della poesia per risolvere il fatto
pittorico cercato e trovato, nella rappresentazione (esemplificazione)
elementare dell’essere totale.
Siamo a una svolta morale della pittura. A quando bisogna fare i
conti con le radici dell’uomo. E, in questo caso, morale sta
come vicenda che è giunta al suo filtro, come scelta di fatti
e di poetica, e anche come scelta di soggetti, cioé di luoghi
in cui far sopravvivere le possibilità dell’arte: finiti
i clamori, spenti nella dimenticanza i pettegolezzi di salotto,
sepolte anche le massificazioni ideologiche, all’artista non
resta che addossarsi le sue responsabilità morali, appunto
— quelle che lo trattengono nella vita e gli fanno superare
l’idea appassionante del suicidio — nei confronti di
questa storia che è chiamato a distinguere, a rendere propria
quasi fosse una proposta nuova. O almeno ad agire come se la nuova
storia possa decidersi anche nella sua opera. Non conosciamo di
Bersce la ripugnanza per la speculazione erudita, per l’aneddoto
fantastico, per le teorie rivoluzionarie: è la sua pittura
che ci fa supporre quanto siascavata e profonda la zona da cui prende
i suoi interessi, al riparo dai venti, dai cambiamenti di umore
della critica o dell’apparato mercantile. La calma, la lenta
e quasi processionale chiusura morfologica di Bersce, che trasforma
la realtà in massiccia poesia della realtà, in intenso
groviglio informale, dà la caratteristica lessicale a un
gusto antiletterario e antionirico, concluso in una cura assidua
per l’ambiente dell’uomo, la sovrabbondanza sensuale
e il piacere per la vita che si muove, ma con una estenuante quiete,
nella quale l’artista si ritrova e affonda il suo sguardo,
quasi impotente, così fragile da poter riassumere e ordinare
gli elementi fondamentali solo con una sequenza lentissima.
L’uomo è profilato in un senso di realtà, ma
continuamente, ambiguamente disposto a negarla, questa realtà,
a rientrare nel bozzolo delle sensazioni e dei profumi ignoti, delle
forme non viste ma immaginate nei grandi effetti grafici e geografici
della natura. In fondo Bersce reagisce stando lontano, si fa sentire
guardandosi bene dal gridare, ed è il suo silenzio a descrivere
la rinuncia verso le manifestazioni esteriori della produzione culturale.
E’ il suo modo per superare l’estetica ripensando alle
matrici prime, misteriose dell’esistenza, e porsi a riscontro
diretto con ciò che è la natura, l’uomo umano,
il motivo della sostanza e della materia, più che del profilo
e della forma: ciò che è grottesco diviene oscuro,
ciò che è solenne assume un aspetto arcano, ciò
che sembra curioso diviene viscido e sfuggente. Spesso sembra di
entrare e di affondare nella pittura di Bersce che ci attira e ci
trattiene in un pensiero più assorto, attento a questo affare
conturbante che è guardare l’uomo.
Bersce è particolarmente
legato, nel senso che gli sembra giusto, dopo tutti i disincanti
e le cadute provocati dall’idealismo e dalla retorica del
titanismo, riportarsi in questa visione scabra, terrestre, risolta
nei minimi termini letterari, nella storia più semplice che
si possa inventare per le cose.
Preferisce porsi, senza mediazione, vicino, insieme con ciò
che dipinge, quindi non esalta e non brutalizza i significati, si
limita a guardare e a dipingere con la calma, con la ribollente
drammaticità della sua forza La pittura è difesa come
precisa fase creativa, in sé solamente verificabile e agente,
come arte che non ha necessità di ulteriori ridossi dialettici,
e tuttavia li sopporta. Potrebbe sembrare un atteggiamento di superiorità,
di purismo. E può esserci anche questa accezione di lettura
in Bersce. Più evidente è però la sua preoccupazione
di non farsi contaminare, di rimanere mondo dall’appiccicoso
esercitarsi delle correnti e dal vizio della deviazione alla moda.
La sua diffidenza è in effetti una dimostrazione di fragilità.
Forse il pittore ha coscienza delle sue debolezze e preferisce rimanere
in se stesso; piuttosto che trovare limiti negli altri approfondisce
i propri limiti. E in una terra di giganti e di superuomini è
così importante poter scoprire un artista che mostra incertezze
e anche qualche timore. L’uomo granitico, del resto, non è
un uomo, o per lo meno non si può identificare nella storia.
Ci conosciamo abbastanza per sapere tutte le angosce quotidiane
e i dispiaceri che ci provoca questa costruzione volubile e malata
che è la nostra individualità materiale e spirituale,
guidata come sull’orlo di un abisso fatto di impotenze, di
timidezze, una costruzione sempre sul punto di frantumarsi.
In considerazione di questi limiti, di questo assurdo non spiegato,
di tante azioni subite anziché fatte subire, Bersce cresce
di statura nell’arte contemporanea come figura limpida e utile,
come pittore che non dimentica mai la sua dimensione nella realtà
e nell’evoluzione storica. C’è un complesso tormento
di scoperte nei suoi quadri, un ripassare sulle ombre della realtà,
il senso di un’armonia raccolta appena e mai oltre insistita,
che mostra quale sia stato il suo procedere di visioni: per Bersce
un sobbalzo di luce, è importante, si direbbe esaltante,
quanto un terremoto di colori, quanto l’accendersi della passione.
Un trasalimento di viola in bruno e di verdi chiari in verdi penombre
equivale allo scarto luminoso che c’è dal buio al sole.
Il pittore non si permette mai la citazione di un oggetto superfluo
né di un appiglio vago, a sé stante. Il soggetto è
completamente raccolto in se stesso, compatto e riassunto come in
un lampo, in una struttura definitiva. E questo è il risultato
artistico di quel processo che si è individuato in Bersce
di osservare quelle forme crescenti, quegli organismi mandati a
mente e ripetuti come le prime parole imparate nell’infanzia
Ciò che è proposto basta a spiegarsi
e si contiene, un cielo è cielo sopra la terra e la terra
e quella che conosciamo, con in più la poesia scoperta dal
pittore.
Bersce non si vuole estraniare dal tradizionalismo ma ne rifiuta
il significato celebrativo e mistico per una traccia più
scavata nei sensi e nellamaterialità umana. Dipinge figure
e se ne serve per entrare in altri sistemi, cioè nell’incanto
sconosciuto o appena lampeggiato della natura ormai schiusa alla
cupidigia dello sguardo, ormai divaricata e congiunta con chi la
vede; e qui protagonista è l’uomo, ancora, non se lo
lascia sfuggire, lo costringe a rivolgersi con più verità
alla terra, al senso della maternità terrestre, atavica.
In questa storia arrivata all’osso, in questa pagina che copia
privilegi innati, è inutile, dannosa anzi, da parte del pittore,
la raffinatezza dialettica, la sapienza descrittiva, l’intuito
magico: la lezione che teniamo dentro si è rivelata da sola,
attraverso la conoscenza e il conseguente rifiuto del dato illustrativo,
della stilizzazione, della decorazione e dell’arabesco.
Niente cultura come vizio, ma ascolto di quel nucleo centrale che
è l’immagine ibrida, informale della conoscenza anteriore
alla capacità di giudizio, del dramma che nasce con noi e
con noi si risolve.
E’ una posizione filosofica ben determinata, che comunque
Bersce non formalizza poiché uno dei presupposti della sua
pittura è proprio di lasciare lo spettatore quanto mai libero
di inventarsi una sua giustezza esistenziale, la propria scansione
ritmica. All’accadimento visivo l’artista dà
una forma interna, ci lascia solo intravedere una narrazione, non
ce la spiega mai.
Così i suoi sentimenti affondati nella materia, sono fatti
di quella stessa pasta con la quale dipinge la vegetazione, ma qui
la forma tenta di affermarsi con un problema diverso di sensibilità,
cioè con un vigore plastico che superi quello altrimenti
con ferito da Bersce. Nella sua piana spuntano e meglio si gonfiano
i suoi segni in un discorso che vuole arrivare a dimostrare lo stesso
impalco, la sostanziale uguaglianza tra forma umana e forma della
natura, che anzi procede come richiamo dell’umano alla natura.
Ed è un tema, in cui Bersce non ha finito di lavorare, ma
che chiaramente accenna a questa metamorfosi, a questa intercorrenza,
operando sulle soluzioni di base della materia-forma: tenta di uscire
in modo più risolto, cioè nella sua pienezza simbolica
e fisica, da quel prato carnivoro che lo trattiene e lo condiziona,
che vorrebbe mantenerlo nella dimensione di una radice. Infatti
Bersce ritrova nella sua natura, che gli palpita come un’idea
fissa, è simile a un gonfio lombrico che si allunga o si
contrae senza beatitudine, con incoscienza, dietro l’appannata
stagione serale, in una terra umida, piovosa, sotto il velo delle
ombre che fondono i colori.
Ci sembra lontana da Bersce l’intenzione di offrire questa
duplicità di interessi come dilemma di sopravvento tra natura
e uomo, piuttosto è una traccia di conciliazione tra le due
forze affini, e ancor più, di avvicendamento e di fusione,
in margine ai significati riflessi che i due argomenti esprimono.
Non è la conciliazione di marca religiosa e tanto meno la
separazione dogmatica, quanto la verifica di due potenzialità
che hanno la medesima radice fisica, lo stesso periplo di vita e
di morte, quasi la stessa consistenza chimica. Contribuiscono splendidamente
le materie di Bersce a questo avanzamento parallelo e unitario delle
tematiche: l’olio gonfio di pigmenti ha scabrosità
a volte taglienti e, altrimenti, si spiana in una larga spatolata
piena di quei succhi da qui prende argomento. Il modo di ritmare
le superfici non solo nel colore, ma nel linguaggio della materia,
cioè nella modulazione degli spessori e degli impasti, dà
a Bersce la possibilità di rendere quanto mai sottile e penetrante
il suo dipingere, con una relativa povertà di tessitura formale.
Così si torna, senza dispersione, alla polpa del corpo della
terra, alla meditazione per strade recondite dei fatti intesi come
relazione di proprietà organiche e di soluzioni mentali.
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