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UNA CONVERSAZIONE PARIGINA
di Pullo Maria Rosaria
Incontro
Michel Bersce nel suo studio a Parigi. La conversazione si dipana
(o sarebbe meglio dire s'intrica) lungo molteplici linee, un'ipotesi
si lega all'altra attraverso impercettibili nessi colloquiali (così
difficili da rendere in questa specie di verbale), col prezioso
sussidio di un paio di supporti magnetici maneggiati piuttosto maldestramente
da chi scrive.
Parlando del tuo lavoro degli anni sessanta, hai usato una formula
che mi è sembrata abbastanza intrigante e che potrebbe costituire
un buon punto di partenza per questa conversazione. Dicevi che in
quel momento non puntavi tanto a creare nuovi schemi (infondo equivalenti)
da sostituire ai vecchi, ma ti interessava piuttosto la possibilità
di «mettere in moto situazioni»...
Mettere in discussione gli schemi. Potrei dire che la parte migliore,
quella più lucida della mia attività nel campo della
scrittura . lo vengo proprio da studi di filosofia, avevo una formazione
crociana - gramsciana, e in quel momento oscillavo, in modo abbastanza
strano, attraverso letture disordinatissime di diverso tipo, tra
Vico e Nietzsche. Quindi scritti di quel genere mi sembravano rigidissimi,
mentre io sentivo il bisogno di buttare all'aria queste cose...
In tutto il tuo lavoro c'è questo interesse per lo schema,
per il modello operativo, per il meccanismo, utilizzati e quindi
sovvertiti, con un tipico atteggiamento sperimentale.
Sì, con un atteggiamento in un certo senso eretico. Forzando
le strutture e o schemi per metterli in discussione e per vedere
fino a che punto sì può arrivare. Da un lato sta il
desiderio quasi paradossale di inventare un sistema nuovo che fornisca
spiegazioni radicalmente nuove, dall'altro naturalmente l'impossibilità
di trovarlo.
Per quanto riguarda il mio percorso personale, credo che ci sia
sempre stato un forte influsso della mia formazione filosofica.
All'epoca non mi sembra va molto importante, invece più si
va avanti col tempo più mi accorgo d questa apertura. Capisci
bene che se uno regge alla lettura di Essere e tempo di Heidegger
è impossibile che non ti lasci traccia.
Gli scritti sui presocratici di Nietzsche poi sono stati fondamentali.
Mi ha sempre affascinato, e credo che si veda anche dalle cose che
faccio, questo passaggio dal mito al rito logico. Quello che mi
interessava maggiormente non era la logica o la filosofia intesa
in senso proprio, ma proprio l'aspetto rituale della teoria.
Credo che il momento più significativo sia stato costituito
dalla lettura eretica di Wittgenstein e dalla Teoria della violenza.
In questi lavori di ricerca, mettevo in campo alcuni espedienti
di matrice situazionista: una sorta di depistaggio o di aperta falsificazione
rispetto alle foni a cui mi rifacevo. Dai Situazionisti avevo recuperato
soprattutto questo tipi di meccanismi, che loro usavano per mettere
in discussione gli schemi è comportamento comunemente accettati
- e che io estendevo anch all'ambito del pensiero, mettendo in discussione,
in questo caso, gli schemi di studio, di ricerca.
Parlando di rito logico, di ritualità della teoria, volevi
sottolineare un aspetto di messa in scena, di drammatizzazione,
proprio del linguaggio filosofico?
Probabilmente volevo soltanto sottolineare che la razionalità
non è l'unic strumento di comprensione a disposizione dell'uomo.
Di fatto questo strumento ha finito per prevalere. Più gli
schemi logici e razionali vengono imposti e considerati gli unici
possibili, più una società finisce per esser oppressiva
a tutti i suoi livelli: ecco perché mi interessava l'attività
estetica l'unica che mi sembrava capace di far saltare queste cerniere.
Questa è 1 ragione di fondo della mia lettura eretica di
questo tipo di filosofi: a mi parere c'è un filo nascosto
che collega Nietzsche a Vico.
Un approccio filosofico decisamente non ortodosso, con programmatici
sconfinamenti tra diversi campi: estetica, logica, filosofia del
linguaggio...
Certo siamo abbastanza lontani da una lettura di tipo crociano di
Vico.
Un punto fondamentale è proprio quello della visualizzazione
del linguaggio. Tanto per fare un esempio, ho sempre letto La Scienza
nuova, come commento e spiegazione dell'emblema che si trova nella
prima pagina, come un affresco di puro commento. Al miei occhi è
un'enorme glossa di tipo completamente materialistico (c'è
qualche spunto in questa direzione in certe letture francesi della
fine degli anni settanta).
Uno dei tratti caratteristici del tuo percorso, articolato sui molteplici
fronti della teoria, della critica e del lavoro creativo, sta proprio
nella complessità e nella differenziazione delle tue varie
esperienze. Una complessità che pur essendo forse sconcertante
per un lettore non preparato, rivela invece, ad un'indagine più
attenta, alcuni elementi fissi. Uno tra questi è proprio
il rapporto dialettico, mai del tutto messo da parte, tra estetico
e politico ...
Ho sempre visto il lavoro estetico come strettamente legato a quello
teorico e a quello critico, e quindi di necessità a quello
politico. Il lavoro estetico è per sua natura quello che
rimette in discussione gli schemi e delinea modelli di comportamento
più liberi. Se questa, come credo, è la sostanza della
ricerca estetica di questo secolo, sono evidenti i legami con un
modello politico.
In quale misura questo atteggiamento è rimasto, a distanza
di anni, nel tuo lavoro di oggi?
Mutati i tempi è rimasta quest'idea di un'identità
estetica-etica, che ho continuato ad affermare anche nelle cose
ultime che ho fatto e scritto, perché ritengo chel’arte
deve avere un senso, e proprio in questa direzione che può
trovarlo. Non semplicemente nella sperimentazione fine a se impiego
di nuovi media.
Questo è in fondo quello che a mio parere può accomunare
una serie di personalità di formazione diversa .Forse è
proprio per questi motivi che alcune formule e alcune realizzazione
- più strettamente legate a contingenze storiche, poliche
o sociali - risultano oggi più invecchiate, più datate;
mentre altre conservano aperture poetiche ancora efficaci, valide.
Certo. E questo vale per una parte della poesia tecnologica (legata
all'idea di una guerriglia verbale realizzata semplicemente mutando
di segno al] slogan pubblicitario o giornalistico), ma vale anche
per alcune mie realizzazioni connesse a determinati avvenimenti.
La cosa può anche funzionar ma poi o il lavoro diventa più
complesso o perde di incisività. Siamo ancora al discorso
degli schemi: non si può continuare all'infinito applicando
uno stesso schema.
Che ruolo ha giocato nel tuo percorso la ricerca intorno ai precedenti
storici, alle sperimentazioni su parola e immagine del primo novecento?
Proprio per questo motivo, il fatto di unire il visivo al verbale
voleva esse] un elemento di articolazione in più, necessario
per non appiattirsi, per evitare la banalità.
Questa esigenza è stata la ragione che mi ha portato ad interessarmi
dei pro cedenti storici, e non viceversa, come si potrebbe pensare.
Questa attività complicazione espressiva che noi stavamo
praticando mi ha spinto alla. ricerca delle sue radici storiche.
E, risalendo ancora, ti ha portato persino allo studio dei carmi
figura tardo-latini...
Certo, anche se a questi testi visivi più antichi sono arrivato
in un secondo tempo, partendo da studi storico-letterari e filosofici
sulla teoria della luce , e quindi sul tema della conoscenza visiva.
Quello che mi ha colpito fin dall'inizio è che certe esperienze
si manifestano sempre in età di crisi e di passaggio: seguendo
un percorso metastorico, le ritroviamo all'inizio del seicento e
in tutti i momenti in cui si è verificata la caduta di un
sistema culturale, fino alla fine dell'ottocento, alle avanguardie
storiche e al nostri giorni.
Si tratta sempre di forme d'espressione che, proprio per il fatto
di stare a cavallo tra pratica letteraria e pratica visuale, sono
spesso rimaste un po' al margine della storia ufficiale? Penso ad
esempio alle tue ricerche...
Sai, in questo caso c'è però tutta una serie di altre
ragioni.. Perché da una parte c'è il senso di un declino,
di una sconfitta. All'opposto, sul piano della vita culturale, c'è
questo prevalere di Croce; che però ha fatto sì che
molti altri fermenti venissero drasticamente negati.
Torniamo, per forza di cose, al rapporto tra arte e impegno. Qual
è, oggi, guardandoti alle spalle, il rapporto con quell'utopia,
con l'idea di poter cambiare il inondo attraverso l'attività
estetica, attraverso il linguaggio?
Innanzitutto bisogna dire che un certo atteggiamento ha permesso
- e non solo a me, ma a tutto un gruppo di persone che ruotavano
intorno a queste situazioni - di vivere il fallimento del '68 in
maniera molto meno traumatica di quanto non sia avvenuto per altri.
In secondo luogo bisogna sottolineare che l'utopia di cambiare il
mondo con questi strumenti precede il '68. In quel momento sono
semplicemente venute a maturazione alcune cose. E l'utopia poi è
durata lo spazio di un anno, fino a quando non si è cominciato
ad intendere l'attività politica come qualcosa di separato,
di specialistico, rinnegando tutta quella carica di aspettativa,
di malessere e anche di eversione che era stata frenata tra il 1962
e il '68. La delusione è iniziata quasi subito, quando si
è tentato di passare alle vie di fatto, alla realizzazione
nel concreto.
Credo che questa utopia in realtà sia rimasta immutata, come
esigenza. Se un'esigenza era autentica in quel momento, non può
che continuare ad esserci, sia per chi l'ha provata allora, sia
per le generazioni seguenti.
Per quanto mi riguarda la delusione l'ho vissuta allora, non posso
dire di avere un rapporto di rimpianto con queste cose. Forse ne
è rimasto qualcosa come fermento e come lievito nel mio lavoro
creativo e teorico attuale. Credo semplicemente che perdendo noi,
abbiano perso tutti. Il rifiuto di quella carica liberatoria, di
quel modelli di comportamento diversi è stata comunque una
perdita per la società.
Che tipo di influenza ha avuto sul tuo lavoro artistico questa consapevolezza,
questa disillusione?
Chiaramente, procedendo nella mia ricerca estetica, c'è stata
una ripresa dell'elemento lirico. E più questa liricità
insistita viene recuperata, più si manifesta la sensazione
di accostarsi ad un'idea di bellezza che diventa quasi straziante,
come possibilità mancata, o come possibilità circoscritta
solo al momento di realizzazione del manufatto estetico.
Come abbiamo detto tutta la tua esperienza di artista parte da presupposti
filosofici e letterari. Il rapporto, con la materia e in parallelo
la capacità di intendere la parola, la tipografia e la scrittura
come un materiale è stato fondamentale per l'approfondirsi
dei tuoi interessi poetici in direzione di un oggetto visivo?
Devo dire che all'inizio ho fatto anche molta resistenza. Quel che
è certo è che trovavo delle difficoltà in questa
direzione. Il mio lavoro propriamente poetico evidenziandone certi
scarti cronologici e l'uso di citazioni linguistiche del passato.
lo però mi rendevo perfettamente conto che si trattava ancora
una volta della lezione poundiana, questo tipo di limite mi era
perfettamente chiaro.
Mi sembrava semplicemente più stimolante l'alternativa della
visualizzazione del linguaggio, che si innestava sui contatti e
sulle frequentazioni che avevo con alcuni artisti e più in
generale su un mio naturale interesse per la materia. Ritenevo ormai
inevitabile questa necessità di sporcarsi le mani. La consapevolezza
di aver intrapreso una strada differente è arrivata proprio
con quei lavori: si tratta di esercizi che per alcuni anni avevo
lasciato un po' da parte, in una sorta di dimenticatoio, e che nel
1993, ho deciso di esporre .
E per quanto riguarda i rapporti con i pittori?
Tieni presente che io venivo da una formazione piuttosto rigida,
crociana e gramsciana da manuale della sinistra di allora, e il
semplice fatto di imbattermi in questo tipo di situazioni era veramente,
più che altro, un'esperienza di vita...
Credo che il titolo che hai scelto per questa mostra sia particolarmente
indicativo. Esiste ormai una vera e propria tradizione della ripresa
di spunti e di metafore alchemiche nell'arte moderna, a cominciare
almeno dalla fine dello scorso secolo. E c'è una continuità
su questa linea proprio tra quelle ricerche più sovversive
e sperimentali, che tendono a privilegiare l'aspetto mentale del
processo artistico, senza però prescindere dalla componente
materiale, dalla forma.
Sì, anche se vorrei sottolineare che il mio interesse per
l'alchimia non discende affatto dal recupero di queste manifestazioni
nell'ambito delle avanguardie del novecento (penso in particolare
al surrealismo), ma piuttosto dai miei interessi storico-filosofici
per tutta questa linea di pensiero alternativo. E qualcosa di analogo
a quanto è successo per i calligrammi antichi e medioevali:
io conosco e ho citato il lavoro di Apollinaire, ma sono arrivato
a quegli studi per altre vie. Lo stesso vale per l'alchimia, non
credo che la mediazione surrealista sia stata così fondamentale.
Tutti questi approfondimenti rientrano nel contesto di un lavoro
sui sistemi di pensiero secondo, come la gnosi, come certe letture
della mitologia o di alcune religioni.
In questo senso l'impiego della scrittura (per le sue componenti
di traccia, di fissazione del pensiero individuale, e anche per
il suo valore intrinseco, rispetto all'immagine, di rimando ad altro
da sé) si carica attraverso la metafora alchemica di un particolare
significato. E’ il processo mentale che si fa cosa, che si
cala nella materia?
Non porrei il problema in questi termini. Anzi, il processo a mio
modo di vedere è opposto. Nel senso che materia e idea dovrebbero
coincidere. Non è il processo mentale che si cala nella materia
e la rende viva: la materia è già viva. L'artista
trova i suoi terminali nella materia e viceversa la materia trova
i suoi meccanismi terminali nella sensibilità dell'autore,
con uno scambio incrociato. Nel momento in cui le due linee si toccano,
avviene la concretizzazione dell'opera.
Anche se, in questo senso, si trascendono i limiti del discorso
strettamente artistico...
Ma io non credo che il discorso si possa limitare soltanto alla
materia dell'arte. Questo modello, se così possiamo chiamarlo,
va applicato più in generale. Non esiste la materia inanimata,
la materia è pensante. E questo era uno dei nodi ricorrenti
in tutta l'attività di Continuum, per esempio con l'idea
che la macchina fotografica fosse di per sé intelligente
e capace di una selezione. Lo strumento non è mai indifferente,
come non è indifferente l'oggetto a cui si applica. Il compito
dell'artista è quello di riscattare questa sensibilità
che è già presente nella materia.
La scrittura, per tornare alla tua domanda, è semplicemente
uno degli strumenti a disposizione. Soprattutto se diventa scrittura
esilarata, cioè una scrittura usata in un modo non convenzionale,
non funzionale...
Quali sono i tuoi rapporti con il Situazionismo?
Per me si tratta essenzialmente dì una deriva mentale che
però non può mai prescindere dalla coscienza di quello
che si sta facendo. La consapevolezza, nel mio lavoro, non viene
mai meno; e questa è già una differenza fondamentale.
E' un tentativo, ancora una volta alchemico, di uscire dalla normalità
e dalla normatività corrente, per riuscire a recepire altri
stimoli; sempre restando però su di un piano di parità.
C'era un interesse per certe pratiche legate alla psico-geografia,
anche se per me la cosa più importante restava quella di
poter vivere l'ambiente, la città nella sua globalità,
come un sistema di segni, come un insieme di elementi di scrittura.
Negli ultimi anni si è tentato più volte e da più
parti di porre qualche base per una ricostruzione storica delle
esperienze verbo-visuali . I risultati mi sembrano abbastanza distanti
sia sul piano del metodo, sia a livello di conclusioni. Cosa ne
pensi?
Tanto per cominciare non credo che il problema riguardi soltanto
questo genere di ricerche. La ricchezza e lo spreco sono stati davvero
due caratteristiche di questo secolo. Il novecento ha sprecato una
gran quantità di risorse, ecco perché è quasi
impossibile seguire fino in fondo tutti questi rivoli. Questo è
puntualmente accaduto anche per tutti i fenomeni variamente accomunati
sotto il nome di poesia visuale o nuova scrittura. Si è cercato
dì tenere faticosamente insieme anche cose molto diverse
tra loro...
Questo fatto contribuisce a delineare una tendenza generale più
ricca, che si avvale di molteplici manifestazioni.
Certo, ma oggi l'unica strada che mi sembra percorribile non è
più quella dell'indagine di alcuni elementi comuni alle varie
personalità emergenti, ma piuttosto quella dello studio delle
varie personalità nello specifico della loro ricerca.
Ovviamente credo che ci sia stata anche una nostra colpa. In Italia
l'ultimo gruppo di letterati che sia stato capace di presentarsi
come portatore di una civiltà culturale è stato l'ermetismo.
Credo che proprio questo sia mancato da parte nostra, creando un
danno più generale; e non può trattarsi solo di carenze
della critica. La cosa più difficile è capire il perché
di questa situazione. Il fatto stesso che si siano impiegate tante
definizioni per identificare uno stesso fenomeno, da una parte,
sì, ne denota la ricchezza (una ricchezza autentica), ma
dall'altra nasconde proprio questa incapacità di definire
un'identità culturale.
Già a inizio secolo, ma con forza e estensione ancora maggiore
nel quadro delle seconde avanguardie degli anni '50 e '60, si è
generalizzato un atteggiamento di superamento dell'opera d'arte,
della produzione di un oggetto fisico. E credo che anche la quasi
totalità del tuo operato sia comunque orientato in questa
direzione. Che ne pensi?
Sai, io ho sempre considerato ogni opera come un momento di una
ricerca più vasta, una tappa di un cammino in fieri. Un'opera
non è mai conclusa. Anche questo fa parte di un atteggiamento
alchemico...
Se questo è chiaro di fronte al tuo lavoro degli anni sessanta,
forse vale invece la pena di spendere qualche parola in questo senso
anche per alcune tue opere più recenti?
In questi lavori più costruiti da un punto di vista tecnico,
la ricchezza pittorica, l'estrema grazia compositiva, l'insistenza
quasi maniacale del lavoro di copiatura, di scrittura manuale, acquistano
in realtà un valore commentativo: il significato dell'opera
non si identifica con l'estrema raffinatezza visiva dell'oggetto,
ma entra piuttosto in un contrasto dialettico con queste componenti
operative, rese macroscopiche, drammatizzate.
Basta pensare che il gesto maniacale della scrittura è per
sua natura ripetibile, proprio in questo fatto sta il suo essere
mania. Il fatto stesso poi di procedere per cicli mi permette veramente
di esaurire la fonte a cui sto facendo riferimento, perché
nel mio lavoro attuale rimane costante questo mio atteggiamento
di citazione e di meta-citazione.
Forse potrei dire più semplicemente che mentre prima si tendeva
ad attribuire alle ricerche sulla scrittura un valore liberatorio,
ora ci si è accorti che la scrittura in quanto tale libera
molto poco. Credo che sia anche il portato di una ricerca che sempre
più tende a crescere su se stessa, mentre fino a non molti
anni fa sembrava ancora possibile inserirsi in un discorso più
ampio. Da un certo momento in poi i punti di riferimento, di dialogo
e di confronto sono tutti venuti meno. La mia ricerca è divenuta
più autonoma, ma anche più interiorizzata. Il dialogo
avviene per lo più con te stesso e con le cose che fai.
L'atto di copiatura in fondo può durare all'infinito, ripetendosi,
come il processo alchemico che non ha mai fine. Gli oggetti rimangono,
ma ogni tappa è sempre momentanea.
E al fondo di tutto questo c'è la consapevolezza di un necessario
processo di stratificazione, sia materiale che mentale. Cioè
la consapevolezza che la scrittura, nel momento stesso in cui sembra
che stia svelando, in realtà nasconde...
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