ROBERTO ROSSELLINI
DAI PRIMI DOCUMENTARI A "ROMA CITTÀ APERTA" (1936-1945)
 







di Antonio NAPOLITANO




Tra gli studi dedicati a Roberto Rossellini, maestro del cinema e “inventore” del neo-realismo, Arte&Carte è lieta di presentare questo saggio di Antonio Napolitano, il raffinato e profondo critico cinematografico che ha tenuto la rubrica di pertinenza sulle nostre testate on line fino agli ultimi giorni di vita ed il cui ricordo è tuttora vivo in chi lo ha conosciuto ed apprezzato.
E’ un saggio, l’ultimo del grande critico, dedicato appunto al regista di “Roma città aperta”, ma è un testo che ci racconta del Rossellini poco noto e quasi  segreto. Si tratta di una vera e propria perla tanto più apprezzabile per gli amanti della settima arte.

Nato a Roma nel 1906, Roberto Rossellini aveva seguito il tradizionale corso di studi (ginnasio, liceo, università), tipico di un figlio di famiglia borghese benestante. Dopo i vent’anni, però, era cresciuto in lui un acuto interesse per le strutture meccaniche. Si era dedicato, in particolare, alle macchine da presa e di proiezione, cosa non difficile nel suo caso, dato che suo padre era proprietario del "Cinema Corso" in Roma. Così il cinema era diventato una sua passione dato che evidentemente gli era possibile visionare gratuitamente tante pellicole sia italiane che straniere. E si era entusiasmato per "La folla" e per "Alleluia"di King Vidor.
In più, in casa del padre aveva occasione di incontrare varie personalità dell’ambiente cinematografico quali Blasetti, Alessandrini, Poggioli.
Alcuni di loro cominciarono a chiedergli di collaborare alle sceneggiature che essi andavano scrivendo in preparazione dei film da realizzare.
Intanto, per la meritoria iniziativa di Luigi Freddi, nasceva nella capitale, Cinecittà dopo che un vasto incendio aveva distrutto gli stabilimenti della CINES a porta San Giovanni. Molti mesi prima era stato istituito il Centro Sperimentale per cineasti di varie specializzazioni. In tal modo, l’Urbe veniva a costituire il luogo principe della produzione filmica nazionale.
Inoltre a Roma venivano pubblicate varie riviste di cultura concernente la "Decima musa" da "Cinema" a "Bianco e Nero".
Vi scrivevano oltre al critico Prof.L.Chiarini, lo storico R.Paollela, anche saggisti e registi stranieri quali V.Pudovkin, Karl Vincent e  altri.
L’atmosfera romana era quindi più che atta a sollecitare un temperamento creativo come quello di Rossellini alla narrativa per immagini cioè quella Settima Arte che si andava maturando di anno in anno specie dopo  l’avvento del sonoro.
Di conseguenza niente di strano se l’appena trentenne Rossellini si accingesse a provare la sua stoffa di cineasta con delle graduali esperienze. Esse, al principio, sarebbero costituite in brevi documentari di non più di dieci o 12 minuti.
Chiaramente era a conoscenza dei lavori fatti  in Piemonte, vari anni prima, da Roberto Omegna e, forse, proprio per questo tendeva ad una
prosa documentaria che non ostentasse pretese scientifiche, ma potesse interessare lo spettatore con qualche nuova prospettiva d’indagine.
Purtroppo, occorre ammetterlo, di queste cosette non c’è oggi quasi traccia; ciò vale per "Dafne" (1936) e per "L’après-midi d’un faune" (1936) che, tra l’altro, si sa che avesse pochissima attinenza sia con la poesia di Mallarmè sia con la composizione di Debussy.
Invece, anche perché rieditata qualche anno dopo dalla INCOM è risultata reperibile (e in ottimo stato) "Fantasia sottomarina" (1937) che di fantasia ha ben poco.
Girata probabilmente in un aquarium, si tratta dell’osservazione minuziosa della vita che si svolge al di sotto della superficie del mare: vengono riprese con lucide  sequenze le lotte tra numerosi pesci e tra molluschi e altri esseri subacquei (ad esempio lo scorfano contro la murena e l’aggressione di questa contro il polipo che sa bene come divincolarsi e scappare via).
I movimenti, e le fughe, e le improvvise emersioni sono registrate con vera perizia e con distacco senza commenti; (sembra sottinteso che ci si rifaccia all’aforisma di Eraclito: "La lotta è la madre di ogni cosa").
Il regista appare convinto di stare trattando dei simboli naturali della realtà; sarebbe però azzardato affermare che stia provando il concetto di polemos.
In seguito egli darà conto-sempre in brevi documentari-di altre indagini naturalistiche o più strettamente zoologiche ("Il tacchino prepotente" e "Il ruscello di Ripasottile").
Siamo di fronte, comunque, ad una non convenzionale realtà da scoprire e analizzare; Rossellini tenta di cogliere la trasmutazione di creature e cose oggetti non usuali della ricerca accademica.
L’indagine, se non propriamente scientifica è condotta senza preconcetti in piena libertà di idee.
Il regista si preoccupa di rendere delle immagini che trovino una loro congruenza nel contesto del discorso. Allo stesso tempo si avverte l’impegno di allontanarsi dalla tentazione di modi preziosi o inutilmente baroccheggianti: quelli che aduggiavano tanta produzione del genere negli stessi anni.
Nel 1941 Rossellini realizza finalmente una vera e propria pellicola, sia pure anch’essa dalla struttura documentaria: "La nave bianca".
La fotografia è a cura di E.Caracciolo, le scenografie sono di A.Benetti, il commento musicale è del fratello Renzo. La produzione è  del centro cinema del ministero della marina. La durata è quella di un film normale (per quei tempi) cioè di circa un’ora e un quarto.
Che sia intervenuta la supervisione del tenente di vascello Francesco De Robertis appare chiaro. Egli aveva esperienza di riprese cinematografiche avendo girato "Uomini sul fondo" e "Alfatau" che avevano ottenuto un successo più che meritato.
A questo proposito è giusto notare che i primi 15 minuti della "Nave bianca" sono la descrizione della battaglia navale dell’incrociatore italiano contro la piccola flotta britannica incontrata sulla sua
rotta.
Si ha, quindi, la prova della presenza di un tecnico che riesce a darci la rappresentazione dei movimenti dei "pezzi" e il "gioco" dei vari macchinari e di tutti i congegni elettrici usati.
Solo alla fine dello scontro a fuoco con il ferimento del marinaio Basso e di alcuni suoi camerati pare intervenire la mano di Rossellini. Si assiste, perciò, al ricovero di questi feriti che vengono traghettati dall’incrociatore alla nave ospedaliera "ARNO".
E’ il lato umano della vicenda in cui si esplicano le idee umanitarie del regista romano: "bisogna che l’uomo sia nella lotta ma con una immensa pietà per tutti". E la compassione si fa evidente anche in occasione di fatti che non sarebbero tanto gravi per i giovani feriti rispetto a quanto visto prima.
Ad esempio l’indugiare sul lieve dondolio del lettino chirurgico sul quale Basso viene operato agli occhi dato il muoversi del piroscafo.
Un pò fuori tema appare, in realtà, l’annotazione della simpatia sentimentale che alligna pian piano tra Basso e l’infermiera a lui addetta (forse, anche, per  la scarsa capacità recitativa della donna che non è sicuramente un’attrice di professione).
Ad ogni modo, "La nave bianca" risulta un film serio se lo si confronta alle commediole  sciocche dello stesso periodo ("I telefoni bianchi", e "Certe farsette liceali") prodotti per lo schermo che servivano probabilmente a far dimenticare quanto di tragico comportasse la guerra: morti sui fronti di terra e di mare, e perfino nelle grandi città di Milano o Napoli e Torino e Palermo.
Senz’altro adeguato appare il commento musicale ad opera del fratello di Rossellini Renzo che sa evitare ogni tono eccessivo anche durante l’iniziale battaglia, e non si rifà ad alcuna impennata eroica. Meno efficace, come accennato, la resa espressiva delle infermiere e dei chirurghi che lavorano sulla nave ospedaliera "ARNO" e si può ben spiegare perché sono persone che nella vita svolgono realmente dei compiti ben diversi.
Al solito, le cose migliori risiedono nelle parti meno "tecniche" della vicenda. Lo stile narrativo è chiaro, scorrevole forse anche un po’ elementare in qualche sequenza. L’osservazione puntuale conduce l’autore a guardare con occhio pietoso  i traumi cui vengono esposti questi giovani in divisa; essi, dopo tutto,  non sono nemmeno lontanamente responsabili del clima di estrema pericolosità cui non è stato loro concesso di potersi sottrarre. E bene ha fatto il regista a non mostrare emblemi di patriottismo: di fatto un’Arma come la Marina militare italiana era tra le meno legate al regime fascista, considerata quasi assolutamente di fede monarchica.
Il 1942 è l’anno di "Un pilota ritorna" che dallo schermo risulta con la regia di Roberto Rossellini, il quale però ne ha, in persona, negato la paternità attribuendola ad Alessandrini che era stato il realizzatore di "Luciano Serra pilota" di argomento analogo.
Stavolta, comunque, non mancano attori di mestierequali Massimo Girotti (protagonista), P.Lulli nonché la brava Elli Parvo.
La trama del film è semplice: durante un’incursione aerea il tenente pilota Rossati viene abbattuto e fatto prigioniero dai greci alleati degli inglesi (siamo nel 41 cioè nel secondo anno della guerra mondiale). Il comandante che volava insieme con lui ha subito una grave ferita alla gamba destra che dovrà essere operata. Ci penserà un medico italiano che risiede in Grecia da anni e che verrà aiutato dalla figlia Anna infermiera di professione (la Parvo). Tra lei e il tenente Rossati nasce una simpatia che sfiora il sentimento amoroso. Intanto sotto la pressione delle truppe tedesche, anche i prigionieri italiani sono costretti a cambiare luogo: Rossati ne approfitta e riesce poi con un aereo di cui si è impadronito a ritornare in Italia presso il suo distaccamento.
Anche in questo caso, come ha ben notato Mario Verdone "prevale una forte curiosità per gli individui che soffrono a causa delle contingenze belliche d’ogni tipo".
Né Rossellini ricorre ad alcun stratagemma di carattere eccezionale. Egli mantiene sotto stretto controllo la progressione drammatica degli avvenimenti. Solo talvolta la dilatazione dei tempi descrittivi appare fuori misura. Il realismo è convincente, quasi  suggestivo come se fosse esso "la forma artistica della verità" (M.V.).
Viene così evitato ogni vizio formale, ogni "incantamento" sulle belle immagine: si nota una precisione di montaggio che permette di seguire il racconto con attenzione e sono veramente poche le dispersioni e le digressioni.
"Un pilota ritorna" è, però, l’opera che più mostra una certa retorica patriottica come volesse offrire un contributo morale ad una parte dell’esercito italiano. Questo, in quel momento, subisce perdite e sconfitte in varie zone dell’estesissimo fronte bellico. Ciò potrebbe spiegare il perché della insistenza di Rossellini in varie interviste nel negare la sua responsabilità per quanto riguarda la realizzazione del film.
"L’uomo dalla Croce" e il film è girato nel 1943, sceneggiato insieme con Asvero Granelli (del quale è anche il soggetto) e con Alberto Consiglio allora giornalista di grande notorietà. La sequenza iniziale potrebbe trarre in inganno dato che mostra un gruppo di giovani spensierati i quali a torso nudo giocano tra loro su di una radura assolata. Si vedrà, invece, che si tratta di soldati dell’ARMIR (il corpo di spediziono italiana in Russia). Essi sono in attesa del ritorno dei loro camerati partiti per una azione bellica, appoggiata da carri armati sul fronte del Don (ricordiamo che qui persero la vita migliaia di italiani).
Intanto quando il battaglione rientra dall’azione, risulta che c’è un ferito grave.
Appare allora in primo piano il personaggio del cappellano militare, cioè "l’uomo dalla Croce".
Egli è un ecclesiastico pervaso da autentico spirito cristiano, e lo ha ben sottolineato in un suo saggio Mino Argentieri scrivendo che ciò che animail prete militarizzato "si diversifica senz’altro da un cattolicesimo parrocchiale e melenso”.
Rossellini punta su tali fattori caratteriali anche per dare il giusto colore tragico ad un episodio di quella guerra follemento voluta dal fascismo.
La vicenda, poi, si sviluppa anche in altre direzioni: la macchina da presa segue le attività delle contadine del villaggio russo in parte occupato dal battaglione italiano. Si vede infatti la vita che prosegue con le quotidiane azioni per la sopravvivenza. Tra le donne c’è una sola che pare intenzionata a resistere, insieme col compagno che è in qualche modo denotato come una sorta di commissario politico.
Numerosi dettagli, forse anche superflui vengono dati sulla preparazione dell’ennesima azione offensiva. Il comandante del battaglione spiega i problemi tattici ai suoi sottoposti con una dovizia di particolari: il che appare alquanto pleonastica.
Ben più significativi appaiono invece quelli della forzata convivenza tra italiani e paesani russi, e vengono illustrati brevi episodi che sfiorano il paradosso ma che conferiscono al racconto una notevole genuinità.
Poi, per farla breve, quando scoppiano i combattimenti il cappellano verrà colpito a morte nel tentativo ancor una volta di portare aiuto e conforto ad un ferito. Quindi, anche, in film come "L’uomo dalla Croce" gli stilemi di tipo documentario vengono a sostanziare il realismo rosselliniano in modo che molte sequenze e inquadrature, possano dimostrare il riferimento a fatti concreti (tanto consueto al regista). E ciò, tra l’altro, gli consente di sfuggire alla retorica patriottarda e ai toni romanzeschi più compiaciuti.
Rossellini, come ha ripetuto più volte in tante dichiarazioni, non ha voluto partire da nessuna convinzione e ideologica.
Per lui questa è una presa di posizione da scartare in quanto verità imposta, mentre una verità vissuta profondamente può essere solo quella raggiunta attraverso sforzi di coscienza e non per accettazione catechistica.
Una tale tendenza appare una sorta di fruttuoso empirismo valido soprattutto in chi si prepara a lavorare in qualche arte non escluso il cinematografo.
Perciò, l’accusa portatagli talvolta di "mediocre filosofo e tiepido narratore” appare fuori luogo. Non poche intelligenti monografie sembrano infatti mantenere presente lo sviluppo progressivo che avrà di anno in anno il talento dell’autore qui studiato.
Per quanto attiene a "Desiderio", film girato tra il ‘44 e il ‘45, iniziato da Rossellini, si ha certezza che è stato praticamente elaborato e concluso da Marcello Pagliero (e è giusto ricordare che Roberto Rossellini ha sempre rifiutato di esserne l’autore e stavolta più che motivatamente).
La pellicola è una specie di feuilleton con Massimo Girotti ed Elli  Parvo più o meno a loro agio nei problematici personaggi.
È una vicenda drammatica che si conclude col suicidio della giovane donna secondo la formula decadente del "cinéma poetique" invoga Oltralpe dagli anni ‘35 in poi. Stranamente appaiono, per la sceneggiatura le firme di De Santis e di Antonioni.
Sarebbe arduo comunque, individuare e caratterizzare gli elementi rosselliniani presenti nell’opera che precederebbe "Roma città aperta" (1945) e che volutamente abbiamo posto come limite cronologico a questa nostra ricerca.
Piuttosto è essenziale ricordare le qualità non transitorie (a detta dello stesso regista) di quasi ogni suo film, cioè la popolarità e la spiritualità. La prima per la tensione conoscitiva di certi fenomeni collettivi come la guerra o il crollo nazista o la Resistenza.
In più la spiritualità che per Rossellini non coinciderebbe forzosamente con la religiosità ma piuttosto col senso di fratellanza dell’essere umano, la sua capacità di comprensione e di perdono.
D’altra parte, in una conversazione con alcuni redattori de "Les cahiers du cinéma" appare di forte rilievo la smentita dell’improvvisazione delle sceneggiature. "L’argomento di ogni mia cosa per lo schermo posso dire che è sempre stato studiato e meditato, senza togliere che alcuni adattamenti siano stati adattati giorno per giorno" dice il regista.
In ogni caso, al di là delle questioni tecniche, l’affermazione costante e coerente di Rossellini sarà quella: "di voler mettere in assoluto primo piano i valori della persona umana al di sopra di ogni crimine, errore o malvagità, ma scartando i toni didascalici e predicatori".
Napoli, 8 Novembre 2013
Antonio NAPOLITANO